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Mentre da giorni TV e giornali sono pieni di esperti, spesso maschi, che dicono alle donne come devono comportarsi per evitare di farsi ammazzare, Elena respinge la violenza al mittente, a coloro che agiscono i comportamenti che umiliano, offendono, terrorizzano, feriscono, e alla cultura patriarcale interiorizzata, che permea tutta la società e condiziona le istituzioni, legittimando maltrattamenti e abusi.
E se non mancano – soprattutto dall’area politica di destra e dalla Lega in particolare – gli attacchi a Elena Cecchettin, che non riportiamo di proposito per non dare loro ulteriore visibilità, finalmente si levano le voci di un numero crescente di uomini – soprattutto a sinistra, ma non solo – che cominciano a riconoscere di essere parte del problema, pur non avendo mai alzato le mani su una donna.
Cito uno per tutti, ovvero Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore di film di grande successo come Il caimano o Habemus Papam di Nanni Moretti. Originario di Caserta, la provincia dove agisce la Cooperativa sociale EVA di cui abbiamo raccontato nel Dossier Margini ( È un’impresa di NO alla violenza), Francesco Piccolo è autore di un romanzo emblematico, L’animale che mi porto dentro (Einaudi, 2018), in cui indaga proprio la costruzione del maschile come ruolo di genere stereotipato, e anche le difficoltà di chi si sente inadeguato rispetto a questo modello prescrittivo.

In un articolo sul quotidiano La Repubblica, quotidiano di sinistra, intitolato Non esistono i maschi progressisti, Piccolo riconosce con grande onestà: “Siamo stati almeno una volta (e anche di più) nella vita quello che urlava sopra, che non faceva parlare, che doveva parlare prima lui; quello che spiegava come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere; quello che ha cercato di imporre il suo ruolo, quello che si è incazzato di più perché sapeva di avere torto; quello che non ha accettato che si amasse un altro uomo (non ha accettato è poco). Quello che si ricorda che aveva ragione anche due mesi dopo, e chiama, e dice: hai visto che avevo ragione? Quello che quando parla a una riunione si rivolge agli altri uomini. Quello che si dimentica come si chiama la collega. Quello che manda messaggi ambigui per tutta la vita. Quello che sul treno si sente in dovere di rivolgere la parola a una donna che siede di fronte solo perché è carina, e non riuscirebbe a tornare a casa senza averlo fatto. Quello che si appropria delle idee delle altre, disinvoltamente. Eccetera, eccetera, eccetera.
E c’è un’altra cosa che ci riguarda, e che mi riguarda, in questi anni in cui ci si occupa con meticolosità di questo problema. Noi uomini a tutto questo siamo già insofferenti. Io per primo sono molto insofferente. Ci siamo già stancati. Diciamo: vabbè, ho capito. Cerchiamo di comportarci bene, ma sbuffiamo, perché ci hanno già rotto le palle. È questo che diciamo. Anzi, è questo che pensiamo, ma non sempre lo diciamo (soprattutto se siamo progressisti): va bene, abbiamo capito, adesso non rompete più i coglioni”.
Questo è tutto quello che c’è prima del femminicidio. Quello che c’è da sempre nella cultura patriarcale.
È da qui che deve cominciare un profondo cambiamento culturale, che deve trovare forme e parole per farsi strada anche nei confronti di chi preferirebbe voltarsi dall’altra parte. Questo è proprio ciò che sta facendo, nello stupore generale, un film straordinario, girato in un bianco e nero saturo derivato direttamente dai capolavori del Neorealismo che hanno reso celebre nel mondo il cinema italiano.
C’è ancora domani. Al cinema
Tutto è cominciato il 25 ottobre, alla Festa del Cinema di Roma. Ad aprire il festival è stato il film C’è ancora domani, opera prima di una popolare attrice comica romana, Paola Cortellesi, che negli anni precedenti si era già distinta in TV per una serie di monologhi, ironici ma non tanto, sulla discriminazione contro le donne, la violenza nella coppia, il bullismo.
Il 25 ottobre è stata organizzata una anteprima speciale di C’è ancora domani in collaborazione la Fondazione Una Nessuna Centomila, la prima fondazione italiana incentrata specificamente sulla prevenzione e il contrasto della violenza maschile contro le donne, per raccogliere fondi a sostegno dei centri antiviolenza. Nel suo programma di lavoro Una Nessuna Centomila ha incluso specificamente il coinvolgimento del mondo dello spettacolo, della cultura e delle arti perché convinta che solo un lavoro culturale può innescare il cambiamento necessario a prevenire la violenza e possibilmente a sradicarla.
Il film è ambientato nel 1946, in una Roma popolana, che tira a campare come può dopo la fine della seconda Guerra Mondiale. Le strade sono ancora pattugliate dai soldati americani mentre si avvicina il 2 giugno, la data del referendum per scegliere tra monarchia e repubblica e per eleggere i/le componenti dell’assemblea costituente. Il primo voto a cui potranno partecipare le donne.

Delia – la stessa Paola Cortellesi – è la moglie di Ivano, un uomo violento che non lascia passare occasione per denigrarla davanti ai figli, darle dell’incapace, minacciarla e picchiarla. Delia subisce in silenzio perché questo le sembra il suo destino in quanto donna. Si arrangia con mille lavori per guadagnare qualche soldo, che deve però versare al marito, assiste il suocero malato, resiste in silenzio nella speranza che alla figlia adolescente, Marcella, le cose vadano meglio quando si sposerà con il fidanzato, Giulio. Ma le cose sembrano invece precipitare, fino a quando Delia non deciderà di prendere in mano il proprio destino e cercare di scrivere un futuro diverso anche per sua figlia.
Senza mai staccare la telecamera dalla protagonista, Cortellesi ci offre un ritratto corale e sfaccettato di una società in cui le donne sono sistematicamente silenziate, controllate, svalutate, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, e dove la casa si trasforma in una prigione che si può lasciare solo dietro autorizzazione maschile.
Accolto da critiche entusiaste, il film ha cominciato a macinare spettatrici, e spettatori, arrivando in un mese a totalizzare oltre 22 milioni di euro di incassi (dato del 22 novembre), diventando il terzo film più visto dell’anno dopo Barbie (di cui ha scritto per MedFemiNiswiya Lina Meskine qui), e del suo diretto competitor e secondo miglior incasso italiano Oppenheimer (di cui parla Rania Hadjer qui). Erano anni che un film italiano non faceva questi risultati nelle sale cinematografiche, notoriamente in sofferenza dopo il lockdown per la concorrenza delle piattaforme di streaming.
Complice il femminicidio di Giulia Cecchettin e l’avvicinarsi del 25 novembre, è partita anche una corsa alle proiezioni per le scuole, con matinée organizzate dal Nord al Sud della penisola e richieste per incontri con la regista che piovono da scuole medie, licei, istituti tecnici, università. Così è scesa in campo nuovamente la Fondazione Una Nessuna Centomila, e il 22 novembre ha organizzato a Roma una proiezione con dibattito per oltre 300 scuole collegate in streaming.
Un successo che la stessa attrice e regista, intervenendo al programma Propaganda Live su La7, ha spiegato come legato “al fatto che quasi tutti in Italia hanno in famiglia, tra i nonni, i bisnonni o magari molto più vicino a oggi, una esperienza così, per cui è facile riconoscersi”. Una grande identificazione collettiva coerente con le statistiche che dicono che 1 donna su 3 in Italia ha subito una qualche forma di maltrattamento o violenza.
Eppure, quando nel 2022 la produzione del film aveva provato a ottenere un finanziamento statale, C’è ancora domani non era stato ritenuto degno: mancava, secondo la Commissione di valutazione, della “straordinaria qualità artistica” e di sufficiente “caratterizzazione dell’identità nazionale” come previsto dal bando. Potendo finanziare solo 3 film, tra i 5 che erano stati presentati, erano state scelte tre proposte tutte a regia maschile, neanche a farlo apposta. All’epoca il Ministro della cultura era Dario Franceschini, esponente del Partito Democratico.
Ha ragione Francesco Piccolo: “C’è ancora qualcosa – c’è ancora molto – che non funziona”.
E ancora una volta è Elena Cecchettin a dire chiaramente da dove cominciare: “Affinché nessuno debba più sentire il vuoto che sento io, il dolore lancinante che nel buio della mia camera sento incessantemente, dobbiamo reagire. Ci deve essere un cambiamento, una rivoluzione culturale, che insegni il rispetto, l’educazione, l’affettività. Che insegni ad accettare i no, che insegni che le donne non sono proprietà di nessuno” ha scritto su Instagram il 25 novembre.
La prima parte di questo articolo è disponibile qui.