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Quella di oggi a Roma non è stata la “solita” manifestazione indetta il 25 novembre dal movimento transfemminista Non Una Di Meno, che pure dal 2015 ha dato un nuovo significato – di lotta e di coinvolgimento popolare – alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È stata una manifestazione enorme – 500 mila persone secondo le organizzatrici, e non si fatica a crederlo con gli occhi ancora pieni della distesa del Circo Massimo completamente piena.

Una marea rumorosa come mai prima d’ora, in cui migliaia e migliaia di persone – donne, certo, ragazze, certo, ma anche tantissimi uomini e ragazzi, giovani e giovanissimi – hanno sfilato facendo tintinnare mazzi di chiavi, simbolo di ribellione a una violenza che troppo spesso “ha le chiavi di casa”, decise a “bruciare tutto” al grido di “Insieme siam venute, insieme torneremo, Non una, Non una, Non una di meno” e “Noi siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce”.
Dentro i cuori di tutte, di tutti, un nome: quello di Giulia Cecchettin, 22 anni, di Vigonovo, paese in provincia di Padova, uccisa da Filippo Turetta, il suo ex fidanzato, coetaneo originario di un altro comune del padovano, Torreglia. I due erano compagni di università, studiavano ingegneria biomedica, il 12 novembre Giulia avrebbe dovuto laurearsi mentre Filippo era indietro con gli esami.
Una manifestazione che è stata anche un grande, potente, urlato abbraccio alla sorella di Giulia, Elena Cecchettin, capace di far fare al dibattito sulla violenza di genere in Italia un balzo in avanti inaspettato, stanando gli uomini – e le donne – che continuano a negare i privilegi del patriarcato, la discriminazione di genere e la disparità di potere tra uomini e donne che legittimano e rendono invisibile la violenza.
Oltre il femminicidio, si sono finalmente accesi i riflettori sulla violenza quotidiana: quella economica, psicologica, verbale. Quella che si nutre della disparità di potere.
Quella che prende forma nell’ossessivo controllo della partner, enfatizzato a dismisura dalle possibilità offerte dai social e dagli smartphone che hanno dato un volto nuovissimo, 2.0, alla tradizionale riduzione della donna a oggetto di cui il maschio deve poter disporre in maniera esclusiva e a piacimento.
Un femminicidio che ha scosso il paese
Dal giorno in cui Gino Cecchettin ha lanciato il primo appello per denunciare la scomparsa della figlia Giulia, l’Italia è rimasta con il fiato sospeso tra paura e speranza.
Tra le donne però ha cominciato a circolare da subito una voce, insistente, insieme a un brivido lungo la schiena: “Secondo me, quello l’ha ammazzata”. Perché è successo troppe volte negli ultimi tempi: una donna uccisa ogni 3 giorni in media. Perché la lista delle donne uccise dopo aver concesso ai loro ex di “rivedersi un’ultima volta” è lunghissima. Il fatto che il padre di Filippo Turetta si unisse al padre di Giulia nell’appello ai giovani a tornare a casa non bastava a fugare l’atroce presentimento.
Giulia non ha fatto ritorno a casa la sera dell’11 novembre. La denuncia del padre ha fatto scattare le indagini, partite il giorno dopo.
Così si è fatto avanti l’uomo che la sera prima, poco dopo le 23, aveva chiamato il 112, il numero di emergenza dei Carabinieri, perché dal suo balcone affacciato su un parcheggio a Vigonovo, non lontano dalla casa di Giulia, aveva visto un ragazzo prendere a pugni e calci una ragazza che gridava “Smettila, mi fai male”. A un certo punto lei era caduta, poi era stata tirata su e fatta salire su una Fiat Grande Punto nera – lo stesso modello della macchina di Turetta – che era partita a razzo. L’uomo aveva raccontato tutto al centralinista del 112 in diretta. Non era riuscito però a prendere la targa, perché il suo balcone distava 150 metri dal punto dell’aggressione.
Le forze dell’ordine non erano intervenute, non avevano mandato una pattuglia. Si giustificheranno a posteriori con la “mancanza di dettagli” per identificare l’auto in un “territorio molto vasto”. Di fatto la solita sottovalutazione della violenza contro le donne denunciata tante volte da chi lavora nei centri antiviolenza, una delle forme della cosiddetta vittimizzazione secondaria.
I magistrati acquisiscono le immagini delle telecamere di sicurezza della zona che confermano il racconto del testimone. E l’indagine per “scomparsa di persona” diventa per “omicidio volontario”.
Altre telecamere hanno ripreso una seconda aggressione, circa 20 minuti dopo, in un viale della zona industriale di Fossò, a 6 km di distanza: la ragazza che cerca di fuggire colpita ripetutamente, poi cade e batte con forza la testa. Il ragazzo raccoglie il corpo, lo chiude nel bagagliaio e parte. Sul posto la polizia trova grandi macchie di sangue, un pezzo di nastro adesivo, un coltello con una lama lunga 21 cm spezzata.
"Il femminicidio non è un delitto passionale: il femminicidio è un delitto di potere. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge."
La ricerca della Fiat Grande Punto si estende, seguendo i tracciati telefonici e le telecamere di sicurezza, alle zone di montagna tra Veneto e Friuli che il ragazzo frequenta e conosce bene. Si circoscrive una zona in provincia di Pordenone, gli elicotteri dei vigili del fuoco la sorvolano a lungo. È grazie al fiuto di Jagger, un cane da ricerca molecolare dei volontari dell’Associazione nazionale Alpini – abitualmente addestrato a trovare persone vive, o al massimo morte da non oltre 10 ore – che il 18 novembre il corpo della ragazza viene ritrovato nonostante sia trascorsa già una settimana dalla morte e faccia molto freddo. Nascosto dietro una roccia, in un anfratto ai piedi di un pendio, coperto da sacchi di plastica, praticamente invisibile dalla strada.
In attesa dei risultati dell’autopsia, il Gip, giudice per le indagini preliminari, ipotizza che Giulia sia morta “per shock emorragico”, ovvero dissanguata, un delitto “di inaudita ferocia”.
L’auto del ragazzo intanto viene localizzata in Austria e scatta la rogatoria internazionale. Turetta viene arrestato in Germania, vicino a Halle, il 19 novembre, quasi per caso. Un passante chiama la polizia per segnalare una possibile situazione di pericolo: un automobilista fermo sul ciglio della strada senza aver acceso i lampeggiati. Ai poliziotti tedeschi che lo arrestano il giovane dirà di “non aver trovato il coraggio” per togliersi la vita.
Un aereo militare italiano è andato a prenderlo per riportarlo in Italia proprio il 25 novembre, così da cercare di mascherare il fallimento del governo sul fronte della prevenzione con un successo sul fronte penale.
La cultura patriarcale dietro il femminicidio

Giulia Cecchettin è il femminicidio n. 105 in Italia nel 2023: la conta mentre scriviamo è già arrivata a 107, e magari quando questo articolo sarà pubblicato sarà salita ancora. L’anno scorso le donne uccise sono state 106.
A fare la differenza questa volta sono le parole della sorella di Giulia, Elena Cecchettin.
Elena ha 24 anni, studia a Vienna. Rientra immediatamente in Italia quando la sorella scompare. Affianca il padre negli appelli. Interviene sui social. Racconta delle manie di controllo di Filippo, della sua gelosia ossessiva, di quanto fosse diventata insostenibile la situazione al punto che Giulia aveva deciso di porre fine alla relazione. Ma non era bastato, lui aveva continuato a tormentarla.
Il 19 novembre, il giorno successivo al ritrovamento del corpo della sorella, Elena è intervistata dal programma Diritto e rovescio, su Rete 4. Sguardo rivolto alla telecamera, chiarissima nonostante l’emozione, le persone in studio la ascoltano muti, e in poco più di 2 minuti dice al paese quello che continua a non voler sentire nonostante le femministe lo ripetano da 50 anni.
“In questi giorni si è sentito parlare di Turetta, e molte persone l’hanno additato come ‘mostro’ e ‘malato’. Ma lui mostro non è. Mostro è l’eccezione alla società, mostro è quello che esce dai canoni normali di quella che è la nostra società – dichiara lucidissima. – Ma lui è un figlio sano della società patriarcale, che è pregna della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è quella serie di azioni che prevedono e sono volte a limitare la libertà della donna: come controllare un telefono, essere possessivi, fare catcalling”.
“Non tutti gli uomini sono cattivi, mi viene detto spesso. Sì, è vero, ma in questi casi sono sempre uomini – fa notare Elena – E tutti gli uomini traggono beneficio da questo tipo di società. Quindi tutti gli uomini devono essere attenti: devono richiamare l’amico che fa catcalling alle passanti, devono richiamare il collega che controlla il telefono alla ragazza. Dovete essere ostili a questi comportamenti che possono sembrare banalità, ma sono il preludio del femminicidio”.
E ancora: “Il femminicidio non è un delitto passionale: il femminicidio è un delitto di potere. Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge. Bisogna prevedere un’educazione sessuale e affettiva in maniera da prevenire queste cose. Bisogna finanziare i centri antiviolenza, in modo che se le persone devono chiedere aiuto siano in grado di farlo”.
E quando già la giornalista cerca di interromperla – preoccupata forse per quel j’accuse senza mezzi termini al governo, il primo guidato da una donna in Italia, che ha tagliato i finanziamenti per la prevenzione della violenza del 70 per cento, dai 17 milioni del 2022 ai 5 milioni del 2023 – Elena Cecchettin non si lascia intimidire, e con la voce percorsa da un fremito chiede a chi ascolta: “Per Giulia non fate un minuto di silenzio. Per Giulia bruciate tutto”.
Il video in un battibaleno diventa virale sui social. L’hashtag #femalerage diventa trending topic.
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