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Quando, nel 2005, chiesero al Rettore di Harvard Larry Summers perché le donne faticassero a progredire nelle carriere scientifiche, lui parlò di “differenze innate” rispetto agli uomini nelle abilità matematiche, logiche e computazionali. La reazione della comunità accademica internazionale fu immediata e Summers dovette prima scusarsi, poi dimettersi e per la prima volta una Rettrice prese il suo posto.

La sua risposta dimostra come, ancora oggi, antichi e radicati stereotipi di genere influenzino la presenza femminile alle facoltà STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) imponendo condizioni penalizzanti per scienziate e ricercatrici anche nel mondo del lavoro, soprattutto in Occidente. Le statistiche elaborate dall’UNESCO su laureand* di 84 Paesi tra il 2005 e il 2008 rilevavano, infatti, che le iscritte a percorsi tecnologici sono molto inferiori in Olanda, Stati Uniti, Svizzera e Germania rispetto a Iran, Uzbekistan, Azerbaigian, Arabia Saudita e Oman. In Iran, per esempio, dove le laureate all’epoca erano il 49% del totale, il 67% aveva concluso percorsi STEM. In Malesia, l’informatica è una materia comunemente considerata più adatta alle ragazze perché è un sapere teorico che si svolge in uffici “a misura di donna” mentre negli Stati Uniti la percentuale di laureate in questa disciplina nel 2008 non superava il 19%. L’ingegneria, ovunque considerata una professione prettamente maschile, in Indonesia registra quasi una parità di interesse tra donne (48%) e uomini (52%) e in Mongolia le ingegnere sono circa un terzo del totale.
“Il fatto che nei Paesi in cui si associano al pensiero scientifico caratteristiche femminili la partecipazione sia numericamente molto più elevata che da noi dimostra chiaramente che si
tratta di un problema culturale”, spiega il filosofo femminista Lorenzo Gasparrini. “La scarsità di modelli alimenta la scarsa partecipazione in quel campo perché una donna, vedendosi poco rappresentata, si convince che quel settore non sia adatto a lei: questo circolo vizioso va interrotto”.
Le aspirazioni di carriera non hanno, dunque, nulla a che fare con le presunte “differenze innate” di cui parlava Summers, ma dipendono dalle convinzioni che abbiamo su noi stess*, dal giudizio altrui, dalla pressione sociale e dai condizionamenti culturali. Numerose ricerche sociologiche dimostrano, infatti, che gli stereotipi di genere modellano le nostre credenze su competenze, desideri e attitudini influenzando il nostro comportamento che tenderà a confermarle.
La sottorappresentazione femminile: una “profezia che si auto-avvera”

Recenti studi sui test di matematica confermano che non esistono differenze nelle capacità logico computazionali tra bambine e bambini fino ai 12/13 anni. “Dopo quell’età i ragazzi cominciano a essere leggermente più performanti in matematica e le ragazze nella comprensione dei testi”, racconta in una TED Conference Camilla Gaiaschi, Ricercatrice presso il Centro di ricerca GENDERS dell’Università degli Studi di Milano. Questo divario è molto diminuito negli anni, cambia in base al contesto e spesso si inverte all’università dove le donne, per combattere la selezione di genere che non le considera competenti, diventano più motivate e performanti dei loro compagni di corso. “[...] le ragazze iniziano a perdere fiducia in sé stesse perché vivono in contesti in cui ricevono, spesso anche inconsapevolmente, da genitori e insegnanti feedback di approvazione o meno rispetto alle loro competenze”, continua Gaiaschi, spiegando come siano le aspettative di genere a rimodulare le nostre preferenze in base ai condizionamenti che abbiamo interiorizzato, determinando comportamenti e desideri.
Questi radicati bias cognitivi influenzano anche i processi di selezione, assunzione e creano divari persino nel trattamento economico. Secondo uno studio di Yale del 2012, i reclutatori biologi di prestigiose università statunitensi tendono a dare alle candidate un punteggio inferiore rispetto ai candidati, a parità di competenze curriculari, assegnando alle prime un minore stipendio di partenza.
Ces préjugés cognitifs, profondément ancrés, influencent également les processus de sélection et de recrutement allant jusqu’à produire des différences de rémunération en fonction du genre. Selon une étude de Yale, réalisée en 2012, les recruteurs en biologie des prestigieuses universités américaines ont tendance, à compétences égales, à moins bien noter les candidates que les candidats, et à accorder à celles-ci un salaire de départ moins élevé.
Emarginate e non riconosciute
Nel corso dei secoli, numerose ricercatrici hanno realizzato studi fondamentali per il progresso scientifico ma la maggior parte di loro è stata oscurata da colleghi che ottennero tutto il merito. Julia Lermontova aveva affinato tecniche cruciali per ordinare gli elementi della Tavola Periodica eppure l’unica testimonianza del suo lavoro si trova negli archivi di Mendeleev e Lise Meitner scoprì l’elemento 91 insieme a Otto Hahn ma condusse tutte le sue ricerche in un seminterrato senza alcuna retribuzione. Ida Noddack identificò il Renio insieme al consorte Walter Noddack pur essendo sempre considerata solo un’ospite nel suo laboratorio e la fisica Mileva Marić affiancò il marito Albert Einstein in tutte le sue pubblicazioni ma non fu mai citata.
Tantissime hanno subito in prima persona pesanti discriminazioni di genere in un contesto da sempre misogino e maschilista. Nel libro “Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie” (Ledizioni, 2018), Sara Sesti e Liliana Moro ricordano l’infelice battuta del matematico e fisico tedesco Hermann Weyl (1885-1955) che mise in relazione bellezza e intelligenza parlando di due colleghe. “Ci sono state solo due matematiche nella storia: Sofia Kovalevskaya ed Emmy Noether. La prima non era una matematica, la seconda non era una donna”, disse insinuando che la prima fosse troppo bella per poter essere anche intelligente e la seconda troppo geniale e razionale per appartenere al genere femminile.

“Eppure l’affascinante Sofia Kovalevskaya aveva ottenuto il Prix Bordin per i suoi risultati sulla rotazione di un corpo rigido attorno a un punto fisso e fu la prima in Europa a ottenere una cattedra universitaria in matematica. Emmy Noheter, invece, caposcuola dell’algebra moderna, era solo indifferente all’aspetto fisico proprio come Albert Einstein, di cui fu importante collaboratrice”, puntualizzano le autrici.
Rita Levi Montalcini è un altro esempio eclatante. Contro il parere della famiglia, che desiderava per lei un tranquillo futuro da moglie e madre, negli anni ’30 si iscrisse a Medicina, rimase nubile, non fece figli ed ebbe una carriera coronata da importanti successi, tra cui il Nobel nel 1986. In
un’intervista rilasciata poco prima di morire ricordava questo episodio: “È qui con suo marito? – Chiesero convinta che fossi la moglie di uno dei relatori-scienziati. Sono io mio marito! – risposi”.
Verso una medicina di genere?
L’impostazione androcentrica caratterizza anche la sperimentazione farmacologica e la ricerca medica, relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti riproduttivi. Per molto tempo negli studi clinici i soggetti coinvolti erano esclusivamente maschi, in quelli preclinici in vitro (su cellule isolate o linee cellulari) non erano riportate informazioni specifiche sull’organismo di provenienza e persino negli esperimenti in vivo sono state usate solo cavie di sesso maschile. L’esclusione prolungata e sistematica delle donne ha reso le terapie meno efficaci e sicure per loro: pur essendo più longeve, si ammalano maggiormente, consumano più farmaci e sono statisticamente più soggette a effetti collaterali e reazioni avverse rispetto agli uomini.
Poiché per secoli si è creduto che, a parte i genitali, il corpo femminile fosse una versione in miniatura di quello maschile, nessuno riteneva importante studiarlo più approfonditamente. “C’è poi il problema del modello che semplifica ciò che vogliamo ricercare e dimostrare: il corpo della donna è più complesso e ha molti fattori confondenti, il primo è la fluttuazione ormonale mensile”, commenta la giornalista Letizia Gabaglio in una TED conference. “E c’è un problema etico perché le donne possono rimanere incinte e, siccome dei farmaci prima dell’efficacia andiamo a verificare la sicurezza, nessuno ci può dire che quella molecola non possa essere nociva per il nascituro”.
Oggi nessuna azienda farmaceutica sperimenterebbe su un campione omogeneo per genere ed etnia ma le medicine in circolazione vengono prescritte e somministrate senza tener conto delle sostanziali differenze esistenti nella farmacocinetica (assorbimento, distribuzione, metabolizzazione ed eliminazione del farmaco) e nella farmacodinamica (risposta del corpo a una data concentrazione del farmaco nel sangue).

La parzialità di questa visione comporta conseguenze gravissime anche sul processo diagnostico. “Noi conosciamo i sintomi dell’infarto, che nel nostro imaginario sono legati a un’oppressione al petto e a un dolore al braccio sinistro” continua Gabaglio “Ma nelle donne [...] si presenta in maniera diversa: con un bruciore allo stomaco, con un dolore che si può irradiare fino alla schiena, con delle sudorazioni, tanto che spesso è scambiato con un problema gastrico”. Inoltre, aggiunge la giornalista, quando le pazienti devono sottoporsi a interventi di cardiochirurgia, i device che si inseriscono per riaprire le arterie occluse spesso causano sanguinamenti perché sono stati progettati su quelle maschili, che sono più grandi, compromettendo l’esito delle operazioni.
Sviluppare uno sguardo capace di includere le specificità di genere non è solo una questione di equità, giustizia, rigore scientifico e salute per le donne, ma aiuterebbe anche gli uomini, che spesso sviluppano patologie considerate femminili, come il tumore al seno e l’osteoporosi, e le persone trans, sulle quali non esistono ancora studi di rilievo.
L’11 febbraio si celebrava la “Giornata internazionale delle donne e delle ragazze della scienza”: una ricorrenza che rischia di essere una mera formalità senza una radicale messa in discussione di prassi e convinzioni ancora così escludenti e segreganti, oltre che pericolose ed errate.