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La prima a denunciare apertamente Cosa Nostra fu Francesca Serio, madre del sindacalista socialista Salvatore Carnevale. Rimasta vedova con il figlio ancora in fasce nella Sicilia rurale degli anni Cinquanta, dove le donne vivevano relegate in casa, si trasferisce a Sciara, in provincia di Palermo, per lavorare nei campi. Quando Salvatore, fervente sostenitore della riforma agraria, viene ucciso dalla mafia, lei denuncia i suoi assassini e si costituisce parte civile nel processo contro di loro, rompendo il silenzio omertoso imposto dai clan. I colpevoli saranno condannati all’ergastolo nella sentenza di primo grado, poi annullata in Appello e Cassazione.
Qualche decennio dopo sarà Felicia Bartolotta a denunciare gli assassini del figlio, il giornalista e attivista antimafia Peppino Impastato ucciso a Cinisi, Palermo, nel 1978 per ordine del boss Badalamenti. Lei non si arrende e lotta nelle aule di tribunale ottenendone la condanna. Fino alla sua morte, avvenuta nel 2004, continuerà ad affermare di non aver cercato vendetta ma giustizia e ai giovani dirà sempre di tenere “alta la testa e la schiena dritta”, proprio come aveva fatto lei.
I femminicidi di mafia
Secondo l’Associazione antimafia Libera, dal 1878 al 2022 sono state 133 le vittime femminili delle cosche, di cui 36 minorenni. Il fenomeno riguarda soprattutto la Sicilia (34), la Calabria (29) e la Puglia (24). La maggior parte di loro ha subito esecuzioni brutali: alcune sono state trucidate con armi da fuoco, fatte a pezzi o sciolte nell’acido; altre sono state costrette a “suicidarsi” ingerendo liquidi corrosivi; molte sono scomparse nel nulla, non potendo ottenere giustizia neanche da morte, perché i processi sono stati annullati in assenza del cadavere o si sono conclusi con assoluzioni per mancanza di prove, nonostante le denunce, le intercettazioni, le testimonianze.
Dal 1878 al 2022 sono state 133 le vittime femminili delle cosche, di cui 36 minorenni.
C’è chi è morta raggiunta da proiettili vaganti, come Silvia Ruotolo, Maria Colangiuli e Francesca Moccia; chi è stata uccisa per vendetta trasversale nei confronti di parenti mafiosi, per esempio Liliana Caruso e Agata Zucchero; chi è stata ammazzata per aver dedicato la propria vita alla lotta contro i clan, come l’assessora Renata Fonte, la magistrata Francesca Morvillo, pilastro della Procura per i minorenni di Palermo e seconda moglie del giudice antimafia Giovanni Falcone, e l’agente Emanuela Loi, la prima poliziotta a far parte di una scorta.
In nome della libertà
Numerose sono, infine, le donne che hanno rifiutato il rigido codice patriarcale imposto dalle proprie famiglie mafiose in nome della libertà. Maria Concetta Cacciola è una di loro. Nata nel 1980 in una potente cosca ‘ndranghetista, a tredici anni sposa il giovane affiliato Salvatore Figliuzzi, da cui subisce violenze fisiche e psicologiche. Quando lui finisce in carcere, lei viene sorvegliata a vista dal padre e dal fratello ma si innamora comunque di un ragazzo conosciuto in rete. Viene scoperta e picchiata brutalmente da entrambi e, convocata in caserma per un problema legato a uno dei figli, decide di denunciare i maltrattamenti subiti e i traffici della famiglia. Diventa testimone di giustizia ed è trasferita in un luogo protetto ma le mancano i bambini, lontani per ritardi burocratici. Quando, finalmente, li ricontatta, sua madre le intima di rinnegare le sue dichiarazioni se vuole rivederli. Maria Concetta decide di tornare e, una volta a casa, viene costretta a smentire quanto riferito ai magistrati. Pochi giorni dopo sarà trovata morta in bagno. La famiglia parlerà di suicidio ma i giudici non hanno dubbi: “L’ingestione forzata di acido muriatico nell’evocativo gesto di tappare la bocca a chi parla troppo è un metodo tipicamente utilizzato dalla mafia per uccidere i collaboratori di giustizia”, scriverà la Corte d’Assise di Palmi nella sentenza di primo grado che ha condannato il padre, la madre e il fratello per maltrattamenti. Del reato di omicidio, invece, si sta occupando la procura antimafia.
Altrettanto cruenta è la storia di Lea Garofalo, figlia di un temuto boss della provincia di Crotone. Si sposa a 13 anni con Carlo Cuosco, fedelissimo del clan, e insieme si trasferiscono a Milano dove nasce la figlia Denise. Quando lui viene arrestato per spaccio, lei decide di lasciarlo per garantire alla piccola un futuro migliore. Testimonia contro la propria famiglia, dalla quale subisce intimidazioni e minacce, ed entra nel programma di protezione, poi revocato. Nel 2012 a Milano rivede l’ex marito per discutere della figlia, ormai adolescente, e lui la strangola. Il suo corpo viene portato da alcuni complici in un terreno abbandonato, dato alle fiamme e sciolto nell’acido per cancellarne ogni traccia: una punizione esemplare per chi osa ribellarsi a un uomo d’onore rinnegando i legami di sangue, indissolubili per la ‘ndrangheta. Ai suoi funerali, nel 2013, parteciperanno migliaia di persone e quel che resta delle sue spoglie martoriate giace nel cimitero monumentale del capoluogo lombardo come simbolo di eterno coraggio contro il potere mafioso.
Per il bene dei figli
Per le madri che vogliono salvare i propri figli da un futuro criminale senza essere testimoni né collaboratrici di giustizia (1), il giudice Roberto di Bella ha creato Liberi di scegliere, un protocollo interministeriale nato in Calabria nel 2014 e poi esteso anche alla Sicilia. Grazie a una rete di supporto nazionale coordinata dall’associazione Libera, il progetto offre assistenza abitativa, lavorativa e scolastica e finora ha preso in carico 83 minori e giovani adulti e circa 30 nuclei familiari. Liberi di scegliere prevede anche percorsi di educazione alla legalità per contrastare il mito mafioso tra i ragazzi che, in assenza di alternative, rischiano di subirne il fascino.
Nel 2025 il tribunale di Palermo ha avviato più di 150 procedimenti per la decadenza della patria potestà di genitori appartenenti alle cosche evidenziando l’efficacia delle azioni di tutela.

“A differenza delle madri, che non perdono la matria potestà sui minori restando all’interno del nucleo e, anzi, spesso vengono allontanate insieme a loro o possono comunque continuare a vederli, i padri vengono quasi sempre privati della patria potestà”, spiega a Medfeminiswiya Anna Sergi, criminologa esperta di ‘ndrangheta, docente dell’università Alma Mater di Bologna e honorary professor agli atenei di Essex (Regno Unito) e Melbourne. “Poiché loro considerano la prole una proprietà privata, all’inizio reagiscono molto male ma dopo un percorso di riabilitazione in carcere alcuni comprendono che far aderire i ragazzi al protocollo significa salvarli”. Il sostegno dello Stato, però, finisce al raggiungimento della maggiore età, precisa Sergi: “Dopo, alcuni possono addirittura tornare in famiglia e diventare mafiosi. Altri, fortunatamente, riescono a restare al di fuori delle dinamiche del clan per costruirsi una nuova vita altrove”.
I collaboratori di giustizia, o “pentiti”, forniscono informazioni sulle organizzazioni criminali in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, protezione e sostegno economico per sé e le loro famiglie. I testimoni di giustizia, invece, rilasciano deposizioni su reati mafiosi e godono di protezione da parte dello Stato.



