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di Laura Onofri*
La proposta di Direttiva europea sulla violenza contro le donne e la violenza domestica uscita il 6 febbraio dal “Trigolo”, ovvero dal negoziato informale tripartito che riunisce rappresentanti del Parlamento Europeo, della Commissione europea e del Consiglio dell’Unione Europeo (quest’ultimo composto dai ministri degli stati membri) ha suscitato grandi critiche da parte delle organizzazioni di donne e femministe che si occupano di prevenzione e contrasto della violenza di genere.
A questa Direttiva la Commissione lavorava dal marzo 2022, per cercare di individuare gli strumenti necessari per prevenire e contrastare lo stupro, il femminicidio, il matrimonio forzato, le mutilazioni dei genitali femminili, le molestie sessuali, anche nei luoghi di lavoro, e la violenza online.
Obiettivo della Direttiva proposta dalla Commissione europea, che è guidata da una donna, Ursula von der Leyen, era dotare l’UE di una legislazione in grado di prevenire e contrastare queste gravi discriminazioni contro le donne, ispirandosi ai principi della Convenzione di Istanbul, entrata in vigore nell’Unione Europea il 1 ottobre del 2023, ma che molti paesi non hanno ancora ratificato. Altri invece, come la Turchia, si sono ritirati dalla Convenzione.
Le aspettative di operatrici, attiviste, centri antiviolenza, sindacati e di chi ha a cuore la tutela delle donne e il contrasto a ogni forma di violenza, sono andate deluse.
Infatti la proposta di Direttiva uscita dal Trigolo – il negoziato interistituzionale informale tra Parlamento, Commissione e Consiglio dell’UE in cui si raggiunge un accordo provvisorio che deve essere poi adottato con procedure formali – è assai impoverita rispetto a quella votata, nel suo testo più completo, dalla Commissione per i diritti delle donne e la parità di genere (FEMM) del Parlamento europeo con 71 voti favorevoli su 83.
Prima di tutto è stato cassato l’articolo 5 della bozza originaria della Direttiva, quello cioè che prevedeva la definizione di stupro come rapporto sessuale senza consenso.
La motivazione per l’eliminazione di questo principio così importante è stata che l’Unione Europea non avrebbe competenza legislativa in questa materia. Molti giuristi e giuriste ritengono invece che lo stupro sarebbe riconducibile allo sfruttamento sessuale che è un reato di competenza dell’UE, come spiega la magistrata Maria Grazia Giammarinaro, che dal 2010 al 2014 è stata Rappresentante Speciale e Coordinatrice per il contrasto alla tratta di esseri umani dell’OSCE - Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
In un articolo sul quotidiano italiano Domani Giammarinaro scrive: “Lo sfruttamento non è più inteso solo come vantaggio ingiusto (di carattere economico o di altro genere) derivante da una prestazione altrui, sessuale o lavorativa, o di altro tipo, ma finisce col comprendere qualunque uso strumentale di un’altra persona, realizzato allo scopo di perseguire una finalità propria di chi commette la strumentalizzazione, ed estranea alla volontà della vittima”.
Nel testo della Direttiva proposto originariamente dalla Commissione europea si dichiarava che “In molti Stati membri la condizione perché si configuri lo stupro è ancora l'uso della forza, della minaccia o della costrizione. In altri invece basta la sola condizione che la vittima non abbia acconsentito all'atto sessuale. È questo l'unico approccio che garantisce la piena protezione dell'integrità sessuale della vittima. È quindi necessario garantire un uguale livello di protezione in tutta l'Unione precisando gli elementi costitutivi del reato di stupro nei confronti di una donna”. Dopo l’accordo interistituzionale non è più così.
Anche l’art. 4, che prevedeva l’inserimento della definizione di molestie sessuali nel mondo del lavoro, è stato eliminato.
Una decisione molto grave perché sappiamo che la violenza e le molestie sul luogo di lavoro costituiscono violazione dei diritti umani, rappresentano una minaccia alle pari opportunità e risultano incompatibili con un lavoro dignitoso, così come affermato dalla Convenzione ILO del 2019.
Altro grave arretramento è stato prevedere che l’onere della prova sia a carico della vittima di varie forme di violenze on line quali le molestie sessuali online, il cyberbullismo o la diffusione non consensuale di materiale audiovisivo a contenuto sessualmente esplicito, come è stato imposto dalle modifiche introdotte dal Consiglio Europeo nell’ultima fase del negoziato.
Le posizioni contrarie ad alcuni articoli fondamentali della Direttiva da parte di paesi come Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ma anche Francia e Germania, hanno condizionato l’accordo e la Direttiva ne è uscita profondamente svilita.
Manifestazioni e proteste di molte attiviste si sono susseguite in tutta Europa, per cercare di convincere i governi dei propri paesi ad assumere posizioni più nette e più tutelanti per le donne, ma non sono riuscite a modificare le posizioni di quei governi, che sono riusciti di fatto a stralciare alcuni passaggi fondamentali della proposta.
In Italia l’Ong Differenza Donna ha lanciato una petizione che chiedeva di mantenere il testo approvato dal Commissione FEMM del Parlamento europeo, petizione che in pochissimi giorni ha ottenuto più di 85.000 firme.
Pina Picierno, Vice Presidente del Parlamento europeo nonché relatrice italiana della Direttiva, si è spesa sino alla fine per difendere il testo originario. Secondo lei “hanno prevalso alcuni interessi nazionali che affondano le radici in una cultura reazionaria, retrograda e retriva. Spiace che il Governo italiano, guidato dalla premier donna Giorgia Meloni, non sia riuscito a esercitare in modo efficace il proprio peso negoziale, come ha spesso vantato di fare su altri dossier”.
Per protesta, Picierno non ha partecipato al voto della Commissione FEMM sul testo definito il 6 febbraio, dichiarando che “questa Direttiva di buono ha poco più del titolo”.
Una volta adottate, le direttive europee devono essere recepite dagli Stati membri entro 3 anni, adeguando la legislazione nazionale a quanto previsto nel testo europeo. L’obiettivo della Direttiva era che la violenza contro le donne fosse affrontata in modo uniforme nelle legislazioni e politiche degli Stati membri, con il recepimento dei principi della Convenzione di Istanbul.
Per questo introduceva misure che avrebbero reso omogenee nella UE la definizione dei reati e delle pene irrogabili, la protezione delle vittime e l'accesso alla giustizia, l'assistenza alle vittime e il loro risarcimento, una migliore raccolta dei dati, la prevenzione, il coordinamento e la cooperazione.
Con lo stralcio di molti articoli rispetto alla proposta originale il raggiungimento di questo obiettivo risulta molto più lontano. Nuovamente sul corpo delle donne si è consumato un vergognoso compromesso.
Sicuramente nel processo negoziale hanno influito e sono stati privilegiati interessi nazionali e alleanze elettorali in vista delle prossime elezioni europee. Dopo questa decisione sembra chiaro che la violenza contro le donne non è un tema prioritario di cui gli Stati e i Governi hanno capito la portata, le radici, gli efficaci strumenti per il suo contrasto.
Anche in Europa il patriarcato ha inciso profondamente nelle scelte dei Governi e quella che poteva essere una importante svolta nel contrasto alla violenza sulle donne, è di fatto una misura debole e non pienamente efficace.
Il Parlamento europeo dovrà approvare l’accordo raggiunto nel negoziato il prossimo aprile: i margini di miglioramento della Direttiva sono molto stretti, ma le organizzazioni di donne europee continueranno a fare pressione, a cercare alleanze, a promuovere una informazione capillare su un tema che sembra solo “tecnico”, lontano dalla vita quotidiana, ma che avrà un impatto potenzialmente molto negativo sulla vita di milioni di donne e ragazze.