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Quattro donne si danno da fare intorno a un bancone di acciaio. Sul ripiano sono appoggiate cassette di mele annurche, specialità della zona, profumatissime e a km 0. Con gesti abili e sguardo concentrato, maneggiando piccoli e affilati coltelli, le mele lavate vengono private del torsolo, fatte a pezzetti e buttate in grandi pentole. Con l’aggiunta di cannella e zucchero di canna diventeranno una delle confetture di maggior successo de Le Ghiottonerie di Casa Lorena. Ma il vero successo di questo laboratorio di catering, gastronomia, piccoli prodotti da forno e confetture, creato 10 anni fa dalla Cooperativa sociale EVA, è un altro.
Tutte le donne che lavorano a Le Ghiottonerie di Casa Lorena, come pure a Eva.Lab e a La Buvette di EVA, le altre due imprese a cui ha dato vita la Cooperativa EVA, sono donne sopravvissute alla violenza. Grazie a questo lavoro scoprono, o ritrovano, dopo molto tempo e tanta sofferenza, la propria autonomia.
Insieme a un nuovo mestiere, a un contratto di lavoro regolare, non ‘in nero’, e allo stipendio a fine mese che restituiscono dignità e forza, imparano a gestire i propri soldi, aprono per la prima volta un conto corrente personale (in Italia solo il 37 per cento delle donne ne ha uno), escono dalla condizione di dipendenza che aveva cementato la loro ‘appartenenza’ a un uomo che aveva detto di amarle, ma che si era rivelato ben presto un aguzzino.
Tutte loro sono (o sono state) seguite dalle operatrici dei 5 centri antiviolenza che EVA gestisce in Campania. Sono state sostenute e accompagnate mentre affrontavano il difficile percorso di liberazione da partner violenti, i processi penali scaturiti dalle denunce dei maltrattamenti subiti, le cause per la separazione, il divorzio, l’affidamento dei figli. Alcune di loro sono state accolte in una delle tre case rifugio gestite da EVA. Molte di loro hanno ricostruito, con l’aiuto di psicologhe ed educatrici, la relazione con figli e figlie traumatizzati da anni di violenza assistita.
Nella vita di tutte è arrivato un giorno che ha rappresentato una svolta: il momento in cui hanno capito che continuando a sopportare in silenzio – come vogliono le convenzioni sociali, come deve fare una (buona) moglie, come pretende una comunità sempre pronta a (mal) giudicare le donne – avrebbero messo a rischio non solo la propria vita, ma anche e soprattutto quella dei propri figli e figlie.
Perché è quasi sempre per loro che le donne sopportano la violenza. Perché “non volevo togliere il padre ai miei figli”, dicono. Ed è proprio attraverso i figli che gli uomini le legano a sé, imprigionandole nei doveri di cura che spettano alle madri, solo a loro, in quanto ‘femmine’. Costringendole a licenziarsi, “tanto ci penso io a te”, e guai se si dicesse che “non sono capace di mantenere la mia donna”.
EVA, impresa cooperativa femminista
“Quando nel 1999 abbiamo creato la cooperativa e abbiamo aperto il primo centro antiviolenza femminista nel nostro territorio, in tutta la provincia di Caserta non c’era niente di simile”, ricorda Lella Palladino, sociologa, tra le fondatrici della cooperativa di cui è stata anche presidente e che oggi conta 20 socie e oltre 40 lavoratrici.
In Italia i primi centri antiviolenza gestiti da associazioni di donne sono nati all’inizio degli anni ’90, in grandi città come Milano, Bologna, Palermo, Roma, Genova. La loro forza risiedeva – e risiede – nella relazione tra donne, operatrici e sopravvissute, e nella lettura politica della violenza maschile contro le donne, non più considerata come evento che funesta la vita di una singola, ma come fenomeno sociale sistemico, che tocca la vita di tutte in una forma o nell’altra, alimentato e legittimato dalla cultura patriarcale e da ruoli di genere stereotipati.
Siamo in una delle regioni italiane, la Campania, dove le donne se la passano peggio. Secondo i dati pubblicati a novembre 2022 dal Dipartimento della Ragioneria dello Stato, meno di una donna su 3 (29,1 per cento) ha un lavoro retribuito, a fronte di un tasso di occupazione nazionale medio del 49,4 per cento (circa 1 donna su due). Qui sono le donne a farsi carico del 75% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura dei figli (contro una media nazionale del 67%), secondo stime dell’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, che individua proprio in questo ‘welfare familistico’ la causa del bassissimo livello di occupazione delle donne campane.
“Si fatica però ancora a leggere questi dati in connessione con quelli relativi alla violenza, a cominciare dalla violenza economica, una delle più pervasive forme di controllo e abuso sulle donne”, sottolinea Palladino, che fa alcuni esempi: “Vietare alle partner il lavoro fuori casa, oppure costringerle a far accreditare il proprio stipendio su un conto intestato solo a lui, che elargirà piccole somme per la spesa che lei dovrà sempre e comunque elemosinare, una umiliazione continua. E la prima volta che osa contrariare il partner in qualche modo, partono gli insulti e le denigrazioni: ‘Sono io che ti mantengo, devi fare quello che dico io’! E la catena diventa sempre più stretta, la violenza un crescendo”.
Per questo le fondatrici della Cooperativa EVA non hanno tardato a capire che senza un lavoro, anche dopo un percorso in un centro antiviolenza, il rischio di cadere di nuovo in relazioni caratterizzate da dipendenza economica, o addirittura di tornare con il partner violento, era molto alto.
“Da noi la disoccupazione è altissima per tutti, non solo per le donne, anche per i giovani, anche per gli uomini. In alternativa c’è il lavoro nero, senza contratto, senza diritti. E su tutto la camorra, che controlla il territorio”, spiega Palladino. “Per questo il lavoro per le donne in uscita dalla violenza ce lo siamo inventato”.
Sono nati così i primi due laboratori per l’inserimento lavorativo di donne vittime di violenza: Le Ghiottonerie di Casa Lorena ed Eva.Lab, che hanno sede entrambi – e non per caso – a Casal di Principe.
Casal di Principe: promuovere la legalità in terra di camorra
Le strade sono strette, deserte, quasi sempre a senso unico, solo in parte orlate da marciapiedi piastrellati e un po’ sconnessi. Le case hanno grandi portoni fatti con lastre di ferro che impediscono la visuale e chiudono passi carrai che immettono in cortili interni. Un tempo ci transitavano i carri, poi i trattori, oggi soprattutto automobili. A piano terra spesso non ci sono finestre esterne. Solo dai piani rialzati, che hanno stretti terrazzini, è possibile affacciarsi sulla via, sui cortili delle case vicine, sulla distesa di tetti di Casal di Principe, il paesone di circa 20 mila abitanti in provincia di Caserta che ha dato il nome al Clan dei Casalesi, una delle più potenti organizzazioni della camorra, la criminalità organizzata della Campania.
Anche gli edifici che ospitano Le Ghiottonerie di Casa Lorena ed Eva.Lab sono fatti così.
Entrambe le palazzine sono beni confiscati alla camorra, in particolare alla famiglia Schiavone, una delle componenti del Clan dei Casalesi raccontato da Gomorra, il reportage-inchiesta di Roberto Saviano (Einaudi, 2006): bestseller tradotto in decine di lingue, il libro è diventato nel 2008 un premiatissimo film diretto da Matteo Garrone e ha ispirato l’omonima serie ideata e trasmessa da Sky tra il 2014 e il 2021, anch’essa pluripremiata. Dall’uscita del libro Roberto Saviano vive sotto scorta.
“Follow the money” è una battuta attribuita a Giovanni Falcone, il giudice che più di tutti ha innovato i metodi di indagine antimafia e che ha istruito quello che è passato alla storia come il Maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra, l’organizzazione della mafia siciliana che poi lo ha trucidato il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e agli uomini della scorta. È con lui, e con il pool antimafia di cui ha fatto parte, che il sequestro e la confisca dei beni degli esponenti della criminalità organizzata diventano sistematici, nel tentativo di colpirne i capitali e fiaccare il ricostituirsi dei clan.
Si tratta di centinaia di appartamenti, palazzine, negozi, capannoni, a volte intere imprese, terreni e aziende agricole, in tutta Italia, dal Nord al Sud, senza eccezione. Dal 2010, con la creazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, si è dato nuovo impulso al loro riuso, disciplinato dalla legge 109/1996.
“La legge 109 ha permesso di far richiesta dei beni confiscati anche per iniziative con finalità sociali, in modo da coinvolgere le comunità in percorsi di legalità laddove prima imperavano mafia, camorra e ’ndrangheta”, spiega Daniela Santarpia, presidente della Cooperativa EVA. “Ed è proprio quello che abbiamo fatto quando abbiamo ottenuto l’assegnazione del primo edificio, in cui abbiamo aperto Casa Lorena, il centro antiviolenza con casa rifugio. E dove è poi nato il Laboratorio gastronomico Le Ghiottonerie di Casa Lorena, grazie a un progetto sostenuto inizialmente dalla Regione Campania”.
“Oggi Le Ghiottonerie sono una impresa sostenibile”, afferma con orgoglio Santarpia. “Produciamo la Marmellata delle Regine, confettura fatta con le arance raccolte nei giardini della Reggia di Caserta e venduta con un co-branding nello shop della residenza borbonica. Realizziamo catering per le più diverse istituzioni e occasioni. Produciamo crema spalmabile al cioccolato e al pistacchio fatta con il latte delle bufale del nostro territorio, e da poco anche tarallini salati e biscotti che hanno un grande successo”.
“Oltre Casa Lorena disponiamo di un secondo edificio confiscato, sempre a Casal di Principe, e lo abbiamo ristrutturato per accogliere un asilo nido destinato non solo ai bambini delle donne seguite da EVA, ma aperto alla cittadinanza, perché nel nostro territorio queste strutture sono pochissime”, racconta Santarpia. Secondo i calcoli di OpenPolis, con soli 11.747 posti a fronte di circa 150 mila bambini, la Campania è la regione con la minor copertura di nidi in Italia.
“Qui ha trovato posto anche il Punto Luce, un centro diurno per ragazzi dai 7 ai 17 anni realizzato in collaborazione con Save the Children”, aggiunge ancora Santarpia. “Ma soprattutto è qui che nel 2020 è nato il nostro secondo laboratorio per l’inserimento lavorativo di donne in uscita dalla violenza, Eva.Lab”.
Eva.Lab, uscire dalla violenza è un abbraccio di seta
Per ammirare Eva.Lab in tutta la sua magia andiamo a Napoli il 10 giugno, e precisamente al Maschio Angioino. Il castello dalle possenti torri scure, uno dei simboli della metropoli ai piedi del Vesuvio, ospita Napoli Fashion Design, manifestazione-vetrina della creatività partenopea nell’abbigliamento e arredamento, giunta alla sua decima edizione. Per la prima volta Eva.Lab è stata invitata a sfilare qui e l’emozione delle sarte che hanno realizzato i 10 outfit che le modelle indosseranno in passerella è palpabile.
Siamo al fitting: nei camerini si aggirano le indossatrici, altissime e bellissime. Le sarte aggiustano sui loro corpi pantaloni palazzo con ampi spacchi, camice dalle maniche a sbuffo, piccoli top a fascia e abiti ornati da ruches. Si ascoltano i brani musicali che accompagneranno le uscite delle ragazze, si scelgono le pose e i gesti che più valorizzano ciascun modello. Le sarte sono serissime, ma hanno gli occhi che brillano.
“Questa avventura è iniziata nel 2020 con un progetto finanziato dalla Regione Campania in collaborazione con San Leucio Textiles, il consorzio di fabbriche tessili eredità delle seterie realizzate alla fine del Settecento a San Leucio, alle porte di Caserta, da Ferdinando IV di Borbone, sovrano illuminato”, racconta Daniela D’Addio, che coordina il laboratorio. “Dovevamo realizzare kimono e turbanti in seta, ma c’è stata la pandemia e il lockdown, durissimo. Così la prima cosa che abbiamo prodotto sono state mascherine di tessuto lavabile distribuite gratuitamente ai centri antiviolenza di tutta Italia, in un momento in cui queste erano praticamente introvabili”.
Altro partner importante di Eva.Lab è l’Accademia di Belle Arti di Napoli (ABANa), in particolare il corso di Fashion Design con le docenti Maddalena Marciano e Angelina Terzo, che continuano a supervisionare il laboratorio, mentre a disegnare i capi è Carmela Amodeo, diplomatasi qualche anno fa. È con la loro guida che si mettono a punto gli ultimi dettagli per la sfilata; la scelta degli accessori, il trucco, le acconciature.
“I capi che sfilano stasera sono realizzati con le sete avute in dono da Gucci attraverso Gucci Up, un progetto volto a dare nuova vita alle eccedenze della produzione”, spiega D’Addio. “È la conferma che il modello imprenditoriale che stiamo costruendo per Eva.Lab, incentrato su partnership virtuose, costruite valorizzando il territorio e puntando sull’economia circolare, il riuso, la sostenibilità ambientale, funziona. E aggiunge valore al valore sociale intrinseco di Eva.Lab rappresentato dal sostegno concreto a donne che si stanno lasciando alle spalle esperienze di violenza”.
“Ovviamente questo è un atelier diverso dagli altri. Qui si rispettano i tempi delle donne, e dunque i loro ritmi di lavoro. Si fa spazio per eventuali difficoltà, si mette al primo posto la ricostruzione delle loro vita. Ma si valorizzano anche i loro talenti, abilità che avevano dimenticato di avere, come quella nel ricamo”, precisa D’Addio mostrando gli arabeschi rossi disegnati abilmente con ago e filo su una cintura di seta rosa antico.
Intanto è arrivata la notte. Sul cielo napoletano spicca una luna gigantesca e il cortile del Maschio Angioino si illumina di mille luci. Uno dopo l’altro sfilano gli abiti confezionati nel laboratorio di Casal di Principe: la tunica verde, le fruscianti gonne a vita alta, le camicie che si gonfiano alla brezza marina. Ogni volta che una modella si inerpica sugli irregolari gradini che permettono di raggiungere il catwalk sopraelevato, le operaie dell’atelier trattengono il fiato.
Gli applausi che salutano la line up di tutti i capi presentati da Eva.Lab arrivano come una liberazione, ma le sarte non salgono sul palco per riceverli, preferendo restare dietro le quinte. Arriverà forse un domani anche per loro il momento per mostrarsi insieme alle loro creazioni. Nel frattempo lasciano che siano gli abiti a testimoniare il loro riscatto.
La Buvette di EVA: racconto di rinascita
Non è facile per chi ha subito violenza raccontare la propria storia. Raccontare significa non solo rivivere il trauma, ma finire anche per essere schiacciata inesorabilmente nel ruolo di vittima. “Il femminismo ci insegna che non è il singolo vissuto di violenza che conta. Alla fine le vicende si assomigliano tutte perché la violenza maschile contro le donne è un fatto sociale, collettivo, diffuso”, ribadisce Lella Palladino.
“Con il passare del tempo però ci siamo rese conto che la violenza continuava – e continua – a essere rappresentata come un destino senza alternative. Mentre nella nostra esperienza, per fortuna, non è così. Le donne si liberano, eccome, dalla violenza: tirano fuori una grande forza, sono orgogliose del cammino fatto e il loro successo può essere di esempio ad altre donne e ragazze”, continua la sociologa.
È a partire da queste riflessioni, e con l’intenzione di cambiare la narrazione della violenza, che la Cooperativa EVA l’anno scorso si è lanciata in una nuova avventura e ha preso in gestione la caffetteria dello storico Teatro Mercadante di Napoli, affacciato su Piazza del Municipio, proprio di fronte al Maschio Angioino. È nata così La Buvette di EVA.
“Abbiamo allestito gli spazi con grandi cartelli che rivelano come tutte le donne che lavorano qui sono donne in uscita dalla violenza, che stanno riconquistando la propria autonomia”, racconta Palladino. “Abbiamo spiegato che tutto ciò che serviamo viene preparato da Le Ghiottonerie di Casa Lorena, ovvero da donne in uscita dalla violenza. E abbiamo esposto uno dei più bei kimono realizzati da Eva.Lab… Insomma, eccole tra noi, sorridenti, orgogliose, professionali. Non vittime”.
Ora anche le loro voci hanno cominciato a farsi sentire.
Tiziana Ermini è una delle donne che lavorano a La Buvette di EVA.
Alta, bionda, un abito nero che le lascia scoperta una spalla su cui è drappeggiata una stola bianca made by Eva.Lab, il 3 luglio alla Casa internazionale delle donne di Roma ha raccontato la sua rinascita. Sul palco intorno a lei le cantanti Fiorella Mannoia, Caterina Caselli e Noemi, le attrici Anna Foglietta, Vittoria Puccini, Vanessa Scalera e l’attore Marco Bonini, riuniti per celebrare la nascita di Una Nessuna Centomila, la nuova fondazione italiana dedicata alla prevenzione e al contrasto della violenza contro le donne (che conta tra le sue fondatrici anche Lella Palladino).
Il pubblico che affolla il Cortile della Magnolia si commuove alla descrizione della violenza psicologica subita per anni, fino a quando “mio figlio mi ha detto ‘mamma, tu hai perso il sorriso’” e “le operatrici mi hanno praticamente presa per i capelli, perché voi oggi mi vedete così ma non ero più così”. Si indigna invece di fronte alle battaglie che Ermini sta ancora combattendo in tribunale, dove “un giudice mi ha detto: ‘Io non credo a una sola parola che lei mi ha detto’”, E poi: “mio marito continua a darmi fastidio”.
Ma quando Tiziana racconta di come il lavoro le ha cambiato la vita – “Oggi non possono più farmi del male, perché io sono molto più forte di loro” – parte un applauso entusiasta e liberatorio.