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Le elezioni del 25 settembre potrebbero portare la leader di Fratelli d’Italia (FdI) a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri. Sarebbe la prima donna nella storia repubblicana a essere investita di una delle più alte cariche dello Stato e per questo alcune lo considerano un evento degno di nota in un Paese profondamente misogino e patriarcale, tra i più arretrati in Europa per parità di genere. Finora, solo tre donne sono state elette Presidenti della Camera dei Deputati, una del Senato e appena100 ministeri sui 1500 dei 67 passati governi hanno avuto una referente femminile. È donna solo una presidente di Regione su venti e sono attualmente sette le sindache su centosei comuni e capoluoghi di provincia.
Ma l’elezione di Giorgia Meloni sarebbe davvero una vittoria per le italiane? Il dibattito è molto acceso e, tranne rare eccezioni, la maggior parte delle femministe considera la domanda “priva di senso”.
La sua campagna elettorale ha vergognosamente strumentalizzato le questioni legate ai diritti delle donne per rafforzare una pericolosa retorica razzista[1], omolesbotransfobica e islamofoba e il suo programma politico farebbe regredire il Paese in modo preoccupante. A pagarne le conseguenze sarebbero soprattutto migranti, rifugiati e richiedenti asilo, le persone LGBTQIA+ e le donne.
L’ombra lunga del fascismo
Nata a Roma nel 1977, Meloni a 15 anni comincia a militare nella sezione del Fronte della gioventù del neofascista Movimento Sociale Italiano (MSI). Negli anni Novanta, con il nuovo nome di Alleanza Nazionale (AN), il partito confluisce nel Polo delle Libertà, un ampio schieramento di destra guidato da Silvio Berlusconi che include anche la Lega Nord. Prima deputata di AN, poi vicepresidente della camera e, infine, ministra della gioventù, Meloni apprende l’etica competitiva in una classe politica dominata dagli uomini. Quando, nel 2011, al grottesco carnevale berlusconiano subentra la rigida austerità di Mario Monti, Meloni esce dalla coalizione e fonda Fratelli d’Italia. “Invece di piagnucolare per le quote rosa, Giorgia ha preso il comando della nave che affondava. Dimentica il padre e rifonda il patriarcato partendo dalla fratellizzazione delle donne”, ha commentato in un articolo il filosofo, saggista e attivista Franco Berardi Bifo.
Dio, patria, famiglia
In un discorso tenuto a Roma nel 2019, Meloni si definì “donna”, “madre” e “cristiana” criticando la richiesta avanzata da una consigliera comunale che proponeva di modificare i moduli per l’iscrizione agli asili sostituendo a “padre” e “madre” “genitore 1 e genitore 2” per includere le famiglie monogenitoriali od omosessuali. Subito dopo il duo MEM&J ha creato un remix diventato virale e accompagnato sui social dall’hastag #iosonogiorgia.
“Io mi considero una conservatrice e non credo che un motto mazziniano come ‘Dio, patria e famiglia’ vada a cozzare con la modernità. Significa difendere una identità”, ha dichiarato Meloni in un recente dibattito.

Gran parte della sua propaganda elettorale si è basata sul controllo dei corpi e della sessualità e presenta pericolose tendenze antiabortiste.
In Italia, la legge 194 del 1978 permette di ricorrere all’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione o fino al quinto mese per motivi terapeutici. Negli ultimi anni, nelle regioni governate da FdI si è registrato un inasprimento delle politiche di accesso al servizio in particolare nelle Marche, un vero e proprio “laboratorio” politico della destra.
In un territorio in cui il tasso di medici obiettori è del 71 per cento (la media nazionale certificata dal Sistema di sorveglianza epidemiologica nel 2020 era del 64,6 per cento), il Consiglio regionale ha recentemente impedito l’applicazione di una misura ministeriale che permette di somministrare la pillola abortiva nei consultori di ospedali e cliniche private. Ha, inoltre, ridotto a sette settimane il limite per ricorrere all’Ivg. Una volta ricevuto il certificato medico che autorizza l’intervento, la paziente è, infine, invitata a “riflettere” per un’ulteriore settimana[2].
"Vogliamo dare il diritto alle donne che pensano che l'aborto sia l'unica scelta che hanno di fare una scelta diversa. Non stiamo togliendo un diritto ma aggiungendolo", ha affermato la candidata durante un comizio elettorale il 14 settembre scorso.
“L'ipocrisia di Georgia Meloni non inganna nessuna donna”, ha ribattuto il giorno seguente su Facebook la giornalista femminista Lea Melandri. “Il lavoro di dissuasione e colpevolizzazione che fa il movimento per la vita, quando entra negli ospedali e nei consultori - per non parlare della sepoltura dei feti - è un’ulteriore violenza contro le donne. Si aggiunge alla gravidanza indesiderata, all'indifferenza diffusa di chi le ha messe incinta, alla decisione comunque difficile se non dolorosa di abortire”.
Quando essere donne non basta
Nella città sarda di Olbia alcune femministe durante una recente manifestazione contro le disuguaglianze di genere hanno assaltato e strappato un manifesto elettorale di Fratelli d’Italia intonando canti antifascisti.
Quand il ne suffit pas d’être une femme
La maggior parte delle attiviste italiane concorda sul fatto che l’appartenenza di genere non sia una condizione sufficiente per garantire una trasformazione delle forme, dei linguaggi e dei contenuti della politica e che per dare un concreto sostegno alle cittadine bisogna essere innanzitutto femministe. E “Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo”, ha precisato la filosofa e teorica del movimento Rosi Braidotti.
“Se esistano o meno femministe di destra è una domanda che non porta da nessuna parte”, aggiunge la scrittrice Michela Murgia che ha più volte attaccato la leader di FdI per le sue posizioni politiche. “So però per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente. Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: ‘che modello di potere sta esercitando?’ Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista".
La giornalista Concita De Gregorio invita a chiedersi “perché proprio la destra maschilista e misogina esprima l’unica candidata con potenziale di successo”, riflettendo sul fatto che i partiti più progressisti includano rappresentanti femminili nelle loro liste elettorali ma mai in posizioni di comando.
La questione risale all’inizio degli anni Novanta, ricorda la filosofa e giornalista Ida Dominijanni, alludendo all’elezione alla presidenza della camera della deputata leghista Irene Pivetti (1994). La destra, continua Dominijanni, ha saputo rispondere “molto malatamente” alla richiesta di protagonismo femminile: “Pensiamo al modo perverso con cui Berlusconi ha ‘valorizzato’ le donne mettendole al centro dello scambio fra sesso e potere. O a come la Lega e Fratelli d’Italia hanno ritirato fuori i valori tradizionali della maternità e della famiglia”.
Il rischio che il partito di Meloni ottenga la maggioranza è molto concreto, poiché le profonde scissioni, l’inconsistenza del programma politico e l’assenza di rappresentanti validi e affidabili a sinistra potrebbero spingere molte persone ad astenersi dal voto e quelle indecise ad abbracciare la sua feroce propaganda populista.
Si prevedono tempi bui per il Paese.
Il 21 agosto scorso, la leader di FdI ha rilanciato sui suoi profili social il video di una violenza carnale avvenuta a Piacenza poche ore prima, a danno di una donna ucraina di 55 anni da parte di un richiedente asilo guineano di 27 anni, arrestato. Girato da un residente della zona, il filmato era stato pubblicato (e poi rimosso) dai siti dei quotidiani Messaggero e Libero e la sua diffusione virale ha reso riconoscibile la vittima, che si è detta disperata per questa sovraesposizione mediatica. Twitter, Facebook e Instagram hanno rimosso il post di Meloni, per violazione delle regole dei social ed è stata aperta un'indagine della Procura di Piacenza e un'istruttoria del Garante della privacy.
Il governo del leader ungherese Viktor Orbán ha appena varato una norma che obbliga gli operatori sanitari a far ascoltare il battito cardiaco del feto prima di accordare il permesso per l’interruzione di gravidanza.