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Sembrava tutto pronto per l’approvazione definitiva della riforma dell’articolo 609 bis del Codice Penale, quello che definisce cosa è stupro, in una giornata dall’alto valore simbolico, ovvero il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Meno di una settimana prima, il 19 novembre, la Camera dei Deputati aveva approvato, con un eclatante voto all’unanimità delle forze di governo e dell’opposizione, il testo che introduce un nuovo paragrafo nell’artico 609 bis, paragrafo che recita: “Chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali ad un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
Nel successivo secondo paragrafo viene ripresa la definizione che prima costituiva la definizione di stupro, una formulazione da sempre contestata dal movimento femminista per la forte ri-vittimizzazione a cui esponeva – anzi espone, visto che è rimasto in vigore – le donne che hanno subito uno stupro nelle aule dei tribunali, ovvero: “Alla stessa pena soggiace chi costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità ovvero induce taluno a compiere o a subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o di particolare vulnerabilità della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la per- sona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”.
La nuova formulazione si concludeva con le prescrizioni per i casi di minore gravità, prevedendo che “la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”.
Sessismo nelle aule giudiziarie
Nel lontano 1979 la RAI mandò in onda il documentario Processo per stupro che mostrava come gli avvocati della difesa cercassero in tutti i modi di minare la credibilità della donna facendola passare per una “che ci stava”, che cercava un suo tornaconto economico poiché lo stupratore era stato il suo datore di lavoro con altri tre uomini, e che “non si era difesa abbastanza”, arrivando perfino a ipotizzare che avrebbe potuto mordere il pene dell’uomo che l’aveva costretta a succhiarglielo.
Da allora continuamente si sono susseguite sentenze che minimizzano i fatti di stupro e che sono state puntualmente stigmatizzate dalle donne, come la famosa “sentenza dei jeans” della Corte di Cassazione del 1998, che aveva revocato una condanna per stupro poiché i jeans indossati dalla vittima erano talmente stretti che poteva toglierseli solo da sola… Ancora oggi citata come esempio massimo di sessismo nelle aule giudiziarie, aveva suscitato la veemente protesta delle parlamentari presentatesi tutte in aula in jeans e maglietta.
Fino al 1996 lo stupro era ancora un reato contro la morale. C’erano volute continue mobilitazioni e raccolte di firme del movimento delle donne e della stampa femminista e femminile, in particolare la rivista Grazia, allora molto popolare, per arrivare alla definizione di stupro come reato contro la persona.
Ma nelle aule dei tribunali spetta poi sempre alla donna dimostrare la violenza subita e lottare contro i pregiudizi che troppo spesso condizionano lo sguardo degli stessi magistrati: se una donna è in giro da sola la sera, se accetta un passaggio, se indossa la minigonna, se ha bevuto, se in passato aveva avuto una relazione con l’uomo, se lo conosceva, se lui la corteggiava (anche non voluto), viene vista come corresponsabile di quello che le è accaduto e si rischia che l’uomo non venga nemmeno rinviato a giudizio, oppure che se la cavi con pene lievi o addirittura con l’assoluzione.
"La violenza è strutturale e attraversa anche le aule di giustizia. Vogliono introdurre il consenso nel reato di violenza sessuale ma il consenso lo si impara a scuola nei corsi di educazione affettiva per cui il governo chiede il consenso alle famiglie. Hanno introdotto il reato femminicidio, ma è un crimine di potete e culturale: i femminicidi non diminuiranno solo per il fatto che esiste il reato.”
Per questo il consenso è fondamentale. Consenso espresso liberamente, in maniera inequivocabile, e revocabile. Perché una donna può anche iniziare a pomiciare con un uomo, ma non voler aver rapporti sessuali completi. Oppure può non voler subire certe pratiche sessuali, pur avendo accettato di fare sesso con lui.
Le obiezioni della destra
La trappola è scattata invece al Senato, il 25 novembre, neanche a farlo apposta.
Forte della vittoria alle elezioni di una regione del Nord Italia – il Veneto – dove il candidato a presidente della Regione era stato espresso dalla Lega e aveva vinto, mentre nelle altre due regioni al voto – Campania e Puglia – il candidato presidente di regione, espresso da Fratelli d’Italia, era stato sconfitto, il segretario della Lega Matteo Salvini, ministro de Trasporti e vicepremier nel governo guidato da Giorgia Meloni, ha rinnegato l’accordo bipartisan tra la stessa Meloni e la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, accordo che aveva consentito l’approvazione della misura all’unanimità alla Camera.
Come riportato dall’ANSA, Salvini ha sostenuto che la formulazione "lascia troppo spazio alla libera interpretazione del singolo" e con esso "a vendette personali, da parte di donne e uomini, che senza nessun abuso" potrebbero usare "una norma vaga" a proprio vantaggio "intasando i tribunali". Riecheggia in queste affermazioni una narrazione cara ai movimenti dei padri separati, grandi sostenitori della lega e in particolare di un suo esponente, Simone Pillon, ovvero quella per cui le donne si inventano accuse di molestie e violenza per ottenere divorzi vantaggiosi e vendicarsi dei mariti che, magari, le hanno tradite.
Con Salvini si è subito schierato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e soprattutto la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella secondo la quale: "sulla legge sul consenso il rischio è il rovesciamento dell'onere della prova, questo è il dubbio".
Nel sistema giudiziario italiano, garantista, una persona è ritenuta innocente fino a quando non è condannata, dunque spetta sempre a chi porta l’accusa dimostrare i fatti che denuncia. Invece, secondo Roccella, ora è l’uomo accusato che rischierebbe di dover dimostrare di avere ottenuto tale consenso, anche se non è chiaro perché ciò dovrebbe accadere.
Sta di fatto che ora è tutto rimandato – forse – a febbraio.
La premier Meloni, di fronte a questo palese sabotaggio non ha aperto bocca, o quasi. D’altro canto è noto che lei tende a limitare al massimo i contatti con la stampa, non accettando domande neppure nelle poche conferenze stampa che tiene, soprattutto quando è all’estero.
La segretaria del PD Elly Schlein, che il 12 novembre aveva concluso l’accordo con Meloni che aveva portato al voto all’unanimità alla Camera – primo e unico caso di tutta la legislatura – ha rivelato di aver sentito la Premier “proprio per chiederle di rispettare gli accordi”, ma senza dire con quale esito. “Sarebbe grave”, ha però sottolineato, “se sulla pelle delle donne si facessero rese dei conti post elettorali all’interno della maggioranza”.
Il femminicidio nel Codice penale
Questa vicenda ha finito per oscurare un altro passo avanti a livello penale, ovvero l’approvazione, lo stesso 25 novembre, con il voto della Camera dei Deputati dopo quello positivo già ottenuto al Senato, della legge che ha introdotto nel Codice Penale italiano il femminicidio come reato a se stante.
Il nuovo reato, che potrebbe fare da modello anche in altri paesi, ora recita: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo”.
L’approvazione è stata definita “una svolta epocale” dalla giudice femminista Paola Di Nicola Travaglini, autrice di numerosi libri in cui ha analizzato e smontato i pregiudizi che inquinano la giurisprudenza per i reati contro le donne. Lei stessa è stata più volte ascoltata in Commissione Giustizia nei due rami del Parlamento nel corso del dibattimento, e ha contribuito alla formulazione adottata.
Per tutta risposta, nel pomeriggio del 25 novembre le donne sono tornate in piazza in molte città, dopo la manifestazione nazionale promossa da Non Una Di Meno che si era svolta a Roma sabato 22 novembre.
La lotta continua
E la posizione del movimento femminista è stata espressa chiaramente da una attivista di Non Una di Meno al megafono nella manifestazione di Milano, sottolineando l’altra grande battaglie che il movimento transfemminista, i centri antiviolenza, le associazioni delle donne e delle persone LGBTQIA+ stanno conducendo, ovvero quella per l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, alla quale la destra al governo continua ad opporsi: "La violenza è strutturale e attraversa anche le aule di giustizia”, si legge nella cronaca della giornata del quotidiano la Repubblica. “Vogliono introdurre il consenso nel reato di violenza sessuale ma il consenso lo si impara a scuola nei corsi di educazione affettiva per cui il governo chiede il consenso alle famiglie. Hanno introdotto il reato femminicidio, ma è un crimine di potete e culturale: i femminicidi non diminuiranno solo per il fatto che esiste il reato. Troppo costoso investire in formazione, il carcere allora è la risposta. Ma il carcere da solo non previene, non educa. Caro governo Meloni, grazie ma è troppo tardi quando interviene il diritto penale. La cultura della violenza si contrasta con la prevenzione, proprio attraverso l'educazione al consenso. Il governo ci tutela da morte ma non riconosce i nostri diritti da vive”.

