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Fare la festa a qualcuno non significa esattamente festeggiarlo…: significa accopparlo, come si faceva un tempo nelle campagne con le galline, destinate alla pentola solo nei giorni di festa. Altro che Festa della donna, altro che 8 marzo. Il riferimento sottinteso è ai femminicidi, il cui numero resta costante da anni.
A ogni nuovo episodio di violenza maschile contro le donne, ogni volta che un femminicidio conquista la prima pagina dei giornali, ogni volta che i numeri impietosi di qualche ricerca o dell’ISTAT, l’Istituto nazionale di statistica, fotografano la costante o addirittura crescente disparità tra donne e uomini in Italia, ogni volta che un qualche politico o giornalista o conduttore televisivo si permette battute a dir poco infelici sulle donne, tutte noi, ovvero noi che in qualche modo ci sentiamo femministe, aspettiamo la nuova vignetta di Anarkikka.
Anarkikka – al secolo Stefania Spanò, origini napoletane, 57 anni, caschetto bianco, sguardo acuto e un sorriso aperto – con la sua vena ironica riesce a trasformare la nostra delusione e la nostra rabbia in una risata. Con un fulminante détournement linguistico, giocando con frasi fatte e modi di dire, e con il suo caratteristico segno lineare e pulito che valorizza le emozioni primarie – come la rabbia, appunto – Anarkikka iscrive le lotte delle donne nel più ampio contesto politico e culturale, perché è attraverso politica e cultura che si esprime il patriarcato, ed è solo decostruendolo sul piano politico e culturale che la libertà delle donne può farsi spazio.

Nel volume Smettetela di farci la festa (Edizioni People, 2021) possiamo ripercorrere l’evoluzione del personaggio Anarkikka insieme a quello dell’autrice, e selezionare i materiali per il libro “è stato un percorso all’indietro che però mi portava ulteriormente in avanti, una tenerezza incredibile nel riguardare le prime vignette, nel ripescare tante cose dimenticate”, ci racconta Stefania al telefono. « Scegliere non è stato facile, perché ho una produzione immensa visto che disegno innanzitutto per me stessa, in modo reattivo e passionale, e solo in un secondo momento le cose fatte trovano la loro strada ».
Il personaggio Anarkikka « nasce inizialmente ispirato a mia figlia Francesca, detta Kikka, a quando era adolescente, ma in realtà progressivamente Anarkikka divento io, di indole molto più « anarchica »», constata ridendo. « Sono io che parlo attraverso di lei ».
E se oggi tutti/e conoscono Stefania Spanò come Anarkikka, al punto da indicarla con questo nome anche nelle locandine di convegni e dibattiti, in realtà la sua carriera di autrice satirica « è iniziata tardi, una decina di anni fa, dopo tante altre esperienze lavorative e soprattutto dopo una lunga rielaborazione della mia esperienza di violenza, una storia dalla quale ero riuscita a liberarmi a 30 anni da sola. Ero cresciuta in una famiglia anaffettiva, con una madre molto complicata, avevo avuto mia figlia da sola a 18 anni, poi mi ero innamorata di un uomo sbagliato. Sono diventata adulta negli anni Ottanta, quando si pensava che la parità tra uomini e donne fosse ormai cosa fatta, che le donne avessero ormai tutte le opportunità come gli uomini, e invece ho avuto modo di sperimentare sulla mia pelle quanto tutto questo sia falso», racconta Stefania.

« La rielaborazione della mia esperienza è stata lenta, meditata, e caratterizzata da profonda solitudine, soprattutto dal punto di vista delle relazioni tra donne, anche a causa della mia condizione di ragazza madre e dunque della necessità di iniziare subito a lavorare, per cui le relazioni di amicizia della gioventù si erano subito sfilacciate », ricorda Stefania. « A un certo punto ho sentito la voglia di riprendere in mano il disegno, un talento che avevo fin da piccola ma che avevo dovuto mettere da parte, perché i miei genitori mi hanno costretta a frequentare il liceo scientifico, anziché il liceo artistico come desideravo ».
Via via che Anarkikka prendeva forma sulla carta, «si liberava anche la mia voce. Io, che ero sempre stata una persona un po’ chiusa, «scamazzata» come si dice in napoletano, schiacciata dal mondo intorno, ho però sempre avuto una grande consapevolezza di me, una autostima essenziale anche per liberarmi dalla violenza, insieme alla forza e all’ispirazione che mi venivano da mia figlia, via via che crescevo insieme a lei », riconosce Stefania. « La voce di Anarkikka, la sua capacità di cogliere e mettere a nudo le trappole del linguaggio, di smascherare le incongruenze tra teoria e pratica, tra dichiarazioni e realtà, che servono a silenziare le donne e a rendere invisibili o a manipolare i loro vissuti, nasce anche da lì ».

« All’inizio e per molto tempo non ho rivelato la mia esperienza personale con la violenza », sottolinea Stefania, « perché sentivo che quello che avevo da dire aveva un valore universale, riguardava il modo in cui si parlava di violenza, ovvero giustificandola, sminuendola, invisibilizzandola, e più in generale il modo in cu le donne erano viste – e dunque trattate – dalla società ». E nelle sue vignette Anarkikka ha finito per incarnare il motto « il personale è politico », coniato dalle femministe negli anni Settanta e rivelatosi uno dei principi cardine di qualsiasi pratica politica femminista.
Il debutto di Anarkikka avviene sui social, che si rivelano un alleato prezioso per la sua autrice, in una fase in cui gli algoritmi non restringevano drammaticamente le bolle di ciascuno di noi come avviene adesso: “I social sono stati essenziali per farmi conoscere, quando ho sentito che avevo voglia di far uscire le mie creazioni dal cassetto. Le vignette sono piaciute, sono state accolte, commentate e condivise innanzitutto da tante altre donne alle quali Anarkikka evidentemente dava voce”.
Da lì è stato un crescendo. Iniziano le collaborazioni con associazioni e centri antiviolenza, “e pensare che io nemmeno sapevo dell’esistenza dei centri antiviolenza quando ne avrei avuto bisogno”, nascono le prime campagne, le prime mostre che girano l’Italia. L’Espresso, settimanale di attualità, le offre di tenere un blog sul proprio sito, “un blog gratuito, sia chiaro, ma che ho percepito come un grande riconoscimento”, perché significava che le lotte per l’affermazione della libertà delle donne entravano in un media mainstream, arrivando a un pubblico più generalista, di donne e uomini, rispetto al pubblico di donne variamente femministe che da sempre è il pubblico di riferimento di Anarkikka.

È da queste pagine che Stefania ha raccontato del tumore al seno che l’ha colpita, della scoperta di quanto sia diffuso – colpisce 1 donna su 8 – e del nuovo significato che assume una parola come “cura” nel momento in cui il tuo vissuto personale si confronta con quello del mondo travolto dalla pandemia Covid19, che ha esposto senza mezze misure la fragilità dei sistemi sanitari e le enormi disparità nell’accesso alla salute.
Oggi che il disegno satirico “è diventato la mia professione, mi dà da vivere”, resta l’amarezza nel constatare come “il mondo del fumetto sia ancora, in Italia, uno spazio essenzialmente maschile, in cui autori ed editori sono maschi che sembrano condividere la passione per il fumetto con uno spirito quasi goliardico, che proprio in quanto tale esclude per principio le donne. E quando si da spazio alle illustratrici e autrici di fumetti, lo si fa soprattutto per colmare un vuoto evidenziato dal mercato – quello delle donne, un po’ come succede rispetto alla diversità, intesa come diverso orientamento sessuale – e non perché si riconoscano e apprezzino i talenti delle donne alla pari di quelli degli uomini”.
Anarkikka è però una femminista e come tale pensa, rivendica, chiede, accusa, protesta, lotta. E dal fumetto, l’impegno di Anarkikka si è fatto spesso piazza, manifestazione, corteo, sit-in.

Ultima in ordine di tempo “Sui bambini non si PASsa”, manifestazione organizzata il 17 giugno 2021 a Roma, a Piazza Montecitorio, davanti al Parlamento, insieme il Comitato delle cosiddette Madri coraggio, un gruppo di donne a cui i tribunali hanno tolto i/le figli/e, giudicandole affette da PAS, e con il supporto dei sindacati e l’adesione di numerose altre organizzazioni della società civile.
PAS è l’acronimo inglese per Parental Alienation Syndrome, sindrome da alienazione parentale. Una sindrome non riconosciuta dalla comunità scientifica, ma che grava come una condanna sulle donne-madri vittime di violenza: vengono infatti accusate di allontanare i/le figli/e dai padri – ovvero dagli ex partner violenti da cui stanno cercando di separarsi e di cui molto spesso i/le bambini/e hanno paura.
Al punto che fin troppo spesso, i tribunali civili e per i minorenni, che decidono in merito alla separazione e all’affidamento dei/lle bambini/e, finisco per disporre il trasferimento dei bambini in comunità, l’affidamento ai servizi sociali, l’interruzione o quasi di ogni rapporto con la madre, con l’obiettivo di recuperare a tutti i costi, anche a costo di una indicibile sofferenza dei/lle bambini/e e delle loro madri, la relazione con il padre giudicata prioritaria in una lettura patriarcale del concetto di “bigenitorialità”. Di fatto, in questo modo sono le istituzioni ad attuare quella che è la minaccia più comune rivolta dagli uomini maltrattanti alle donne quando cercando di interrompere la relazione violenta: “Ti toglierò i figli”.
Stefania non può nascondere una certa delusione, per come il movimento femminista appaia oggi in Italia: frammentato, lacerato da divisioni generazionali oltre che ideologiche, e dalla difficoltà a trovare contesti di elaborazione collettiva in cui individuare almeno dei denominatori comuni sui quali intessere battaglie che siano condivise da tutte, “perché le disparità di potere, il gender gap, la fragilità economica, il soffitto di cristallo che non si incrina, la violenza maschile contro le donne, sono problemi che stanno nell’orizzonte di chiunque si dica femminista”.
A marzo, “torno finalmente a presentare il mio libro in due scuole”, annuncia con tono ottimista, “spazi che si erano completamente chiusi di fronte alla reazione isterica delle destre e della Lega ai concetti identificati come fantomatiche ‘teorie gender’. Sono piccoli segnali, ma importanti, a fronte di una resistenza al cambiamento, di una restaurazione patriarcale che si va facendo sentire sempre più forte”.
E se prova a tracciare un bilancio del cammino fatto fin qui, Stefania riconosce che una delle cose più preziose che le ha dato Anarkikka “è stato incontrare altre donne, scoprire affinità, costruire relazioni di sorellanza, creare nuove amicizie che hanno riempito un vuoto della mia vita”.