This post is also available in: Français (French)
Il rischio è quello di essere retorica, perché la morte assorda i pensieri con il silenzio del distacco, ma proverò a raccontare Lidia Menapace per quella che è stata nella mia esistenza privata così come in quella politica. Tutta la sua vita ha incarnato l’intreccio della massima che forse meglio di ogni altra riassume il femminismo come pratica e pensiero che tiene insieme la sfera intima con quella pubblica.
Lidia è stata il contrario dell’accademia, della politica paludata e ufficiale, esempio raro e adamantino di laicità, tutte caratteristiche che, anche a sinistra, non l’hanno resa popolare ai vertici (inascoltate per anni le richieste a candidarla al Parlamento quando esisteva il PCI e poi quelle per la nomina a senatrice a vita) ma che l’hanno consegnata alla storia contemporanea come figura indimenticabile per i milioni di persone di ogni età che ha avvicinato nel suo peregrinare instancabile.
“E sì, sono proprio una peripatetica,” diceva sorridendo per prendersi in giro e alleggerire l’atmosfera nelle situazioni ufficiali, spiazzando le eventuali ‘autorità’ presenti.
Fino ai suoi 91 anni, con un minuscolo zaino appresso, dentro al quale c’era sempre un libro giallo per allentare la noia del viaggio, preferibilmente scritto da una autrice, è salita e scesa dai treni in tutta Italia, in città grandi come in centri minuscoli, dove gruppi di donne, pezzi di sindacato, associazioni e qualche istituzione la chiamavano. È rimasto memorabile, nel 2015, in occasione dei 20 anni della rivista Marea, il suo essersi resa disponibile a condividere riflessioni e pensieri sul ‘900, in diretta e senza sapere le domande, mentre alcuni studenti e studentesse le lanciavano delle parole: una stupefacente prova di creatività e sapere enciclopedico.
Oggi si direbbe che è stata una icona pop, per il suo modo di porsi ‘familiare’ sempre, viaggiando in seconda classe e chiedendo di dormire nelle case di chi la invitava, per risparmiare agli ospiti i soldi dell’albergo, ma anche perché l’essere femminista nel concreto ha significato per lei condividere lo spazio fisico: cum panis, dirsi compagna nella fisicità era per Lidia Menapace la norma, non l’eccezione.
Quanto le piaceva mangiare, mi pare che l’unica cosa che raccontava di non amare fossero le trippe, ma non l’ho mai vista rifiutare nulla nel piatto, curiosa come era: mai finire il pasto senza la cerimonia del ‘resentin’. Nella tazzina ancora calda del caffè si versa un velo di grappa, da assaporare subito, perché la via alcolica al femminismo, (un tempo al comunismo) con senso ironico della misura, è la più divertente e lieve. Lei, di cultura cattolica e antifascista, autrice nel 1974 di uno dei primi e più esaustivi testi sulla Democrazia cristiana, metteva costantemente in guardia dal pericolo di cadere, anche se mosse da buone intenzioni, nella trappola della celebrazione inconscia dell’immaginario bellico. “Prendete in esame un qualunque inizio di discorso di un personaggio politico, anche di sinistra” – spiegava – “Nelle prime dieci righe non mancheranno quasi mai parole come strategia, tattica, schieramento, guerra, battaglia. Come facciamo a costruire la pace e la nonviolenza se pronunciamo con la bocca concetti intrisi di morte? Il primo passo per cambiare la cultura tossica della violenza è cambiare il nostro linguaggio, sminandolo da immagini mortifere”.
Così, dicendo chiaro e tondo che anche nel ‘patriarcato di sinistra’ veniva largamente usata la retorica bellica, (ho un vivissimo ricordo del 2002 di una affollatissima iniziativa voluta da Fausto Bertinotti a Venezia dopo il G8 di Genova, uniche due donne in un panel tutto maschile, a sottolineare quanto il movimento noglobal soffrisse di bellicismo ed eccesso di testosterone) Lidia Menapace ruppe anche il tabù romantico della lotta armata partigiana.
Nel docufilm del 2006, realizzato da me con il regista Pietro Orsatti dal titolo Ci dichiariamo nipoti politici raccontò un’altra, totalmente antieroica e poco conosciuta storia della presenza delle donne nella Resistenza. “Essere partigiana è stata una scelta naturale, ma non necessariamente armata”, diceva. “Non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero così spaventata dalle armi che avevo il terrore di spararmi in un piede. Le donne hanno fatto la Resistenza anche e soprattutto nascondendo i partigiani nelle case e nei fienili, rischiando la vita per questo atto di insubordinazione”.
Maestra, maieuta, levatrice, non materna ma affiancante, Lidia Menapace ha incarnato, nel piccolo corpo-mente curioso e gentile che solo il Covid19 è riuscito a spegnere, l’esempio vivente di femminismo inclusivo, irridente del virilismo di destra e di sinistra, di laicità che si fonda sulla libertà dei corpi di gioire del piacere, tutti i piaceri, nel rispetto reciproco.