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DIDA: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Il 20 marzo 1994 gli inviati della RAI Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono freddati con un colpo alla testa nelle strade di Mogadiscio, dilaniata dalla guerra civile. È chiaramente un’esecuzione, ma la Procura di Roma parlerà di “tentata rapina”. Insieme realizzavano servizi sui progetti di cooperazione e sull’operazione militare dell’ONU Restore Hope, che coinvolgeva anche l’esercito italiano, ma indagavano soprattutto sui traffici internazionali di armi, scorie nucleari, materiale radioattivo e rifiuti tossici destinati al Paese del Corno d’Africa. A trent’anni dalla loro morte, tra depistaggi, false testimonianze, insabbiamenti di prove, documenti sottratti, fughe di notizie, richieste di archiviazione e omissioni di responsabilità, il caso resta aperto e la verità su mandanti e moventi non è ancora stata svelata.
L’unico a pagare è stato finora Hashi Omar Hassan, un cittadino somalo che fu condannato per l’omicidio e poi assolto, dopo sedici anni di carcere, e morì per una bomba nascosta sotto il sedile dell'auto nel 2022. Ad accusarlo era stato un suo connazionale, Gelle, che dopo la dichiarazione scomparve nel nulla. Rintracciato anni dopo da una troupe della RAI, Gelle confessò di aver mentito su richiesta di Giuseppe Cassini, l’ambasciatore italiano che svolse le indagini in Somalia, malgrado non fosse né un magistrato né un investigatore.
Sono tanti i misteri che avvolgono quella vicenda accaduta in un momento particolarmente difficile per l’Italia, dove le indagini della magistratura stavano smascherando il ramificato sistema di bustarelle e nepotismi di “Tangentopoli” facendo crollare la Prima Repubblica.
Una presenza scomoda
Dopo la laurea in studi orientali, Ilaria Alpi aveva vissuto 3 anni in Egitto per perfezionare l’arabo collaborando come corrispondente per Italia Radio e per l’Unità.
Nel 1990 entrò in Rai cominciando a occuparsi di esteri per il TG3 e tra il 1992 e il 1994 andò sette volte in Somalia, Lì, a differenza di molti colleghi, parlava con la gente, visitava campi profughi, ospedali e scuole, con gli immancabili sandali ai piedi, la sua “divisa da combattimento”, e uno sguardo sempre lucido e critico. Le donne erano le sue interlocutrici privilegiate: le considerava la chiave per comprendere una realtà estremamente complessa e conflittuale e a loro dedicò il primo servizio realizzato nel Paese. Al momento della morte aveva 32 anni.
Nella terra di nessuno
Dal 1991 la Somalia era in preda al caos, tra carestie, epidemie e la sanguinaria guerra civile tra le opposte fazioni di Farah Aidid e Ali Mahdi che si contendevano il potere dopo la fine della dittatura di Siad Barre (1). Gli interessi economici italiani erano ancora molto forti nella ex colonia e numerosi imprenditori e politici, soprattutto socialisti, volevano portare avanti gli affari avviati durante il precedente regime.
Uno di questi era il Progetto Urano, un colossale programma di smaltimento di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi che, in cambio di interrare materiale inquinante, garantiva armi e munizioni ai due schieramenti, aggirando l’embargo.
Dietro a quel business miliardario c’erano esponenti dei servizi segreti, massoni, mafiosi, diplomatici, industriali, faccendieri e avvocati di estrema destra.
Tra loro, anche Roberto Ruppen, un consulente finanziario incaricato da Ali Mahdi di sbloccare le ingenti le somme di denaro stanziate dall’Italia per i progetti di cooperazione e congelate allo scoppio della guerra. Ma Ruppen in quel periodo lavorava anche a un altro ambizioso progetto: trasformare la holding di Silvio Berlusconi, Publitalia ‘80, nel partito politico che il 29 marzo 1994 avrebbe vinto le elezioni tenendo in scacco il Paese per i successivi venti anni.
Servizi (troppo) segreti
Appena due settimane prima del voto, Alpi e Hrovatin si erano recati a Bosaso, un importante porto nel golfo di Aden, per indagare su un peschereccio con a bordo italiani, croati, curdi e somali sequestrato dai pirati. La nave apparteneva alla flotta Shifco, donata alla Somalia dalla Cooperazione italiana ai tempi di Barre e poi passata a Mugne, un ingegnere vicino ad Ali Mahdi.
Quelle barche ufficialmente portavano pesce africano sui mercati europei ma percorrevano rotte inspiegabilmente lunghe, tra Iran, Balcani e Dublino, e molti ritenevano che contrabbandassero armi. Alpi investigava anche sulla strada tra Garoe e Bosaso, un nastro d’asfalto di oltre 450 chilometri costruito con i soldi della Cooperazione italiana sotto al quale sospettava ci fossero tonnellate di rifiuti tossici.
A distanza di qualche anno le sue intuizioni si sarebbero rivelate fondate. Un’inchiesta dell’ONU ha, infatti, individuato nella Shifco il tassello finale di un vastissimo commercio illegale di armi tra Polonia, Slovenia, Croazia, Italia e Somalia che coinvolgeva anche il trafficante siriano Monzer Al Kassar, che al tempo vendeva enormi quantità di un esplosivo trovato in tutti gli ordigni delle bombe di mafia esplose in Italia tra il 1992 e il 1993: il T4-Rdx.
Alpi e Hrovatin stavano per smascherare tutto questo.
“È la storia della mia vita, devo concludere, voglio mettere la parola fine”, aveva detto la giornalista al direttore del TG3, Andrea Giubilo, poco prima di morire.
Ma quel “clamoroso” servizio non andò mai in onda.