This post is also available in: Français (French)
Per chi, come me, è cresciutə leggendo Michela Murgia e ascoltandola in radio o nei podcast, il vuoto che ha lasciato sembra impossibile da colmare.
A quasi tre mesi dalla sua scomparsa, avvenuta a Roma il 10 agosto all’età di 51 anni, è difficilissimo rassegnarsi all’idea di aver perso una delle intellettuali più brillanti e coraggiose che il Paese abbia avuto negli ultimi decenni. Femminista intersezionale, scrittrice di romanzi indimenticabili, saggista e militante antifascista, con le sue parole rigorose ha sempre lottato con lucidità e chiarezza per la difesa dei diritti umani e per una società più inclusiva e giusta denunciando ogni forma di odio, razzismo e violenza.
Nata a Cabras, in Sardegna, nel 1972, da giovane svolge diversi lavori, perlopiù precari: insegnante di religione nelle scuole, venditrice di multiproprietà, portiera di notte in un albergo, operatrice fiscale, dirigente amministrativa di una centrale termoelettrica. Si avvicina alla scrittura inizialmente attraverso due blog: Il Mio Sinis, dedicato alla sua terra, e Il mondo deve sapere, in cui raccontava un’esperienza tragicomica come operatrice in un call center, poi confluita in un libro (Feltrinelli, 2006) e nel film diretto da Paolo Virzì “Tutta la vita davanti” (2008).
In Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede (Einaudi, 2008) propone una guida del territorio che esula da itinerari turistici e grandi resort di lusso. Con Accabadora, (Einaudi 2009), suo fortunato romanzo d’esordio, vince i prestigiosi premi Dessì, Mondello e Campiello. Ambientato negli anni Cinquanta in un piccolo paese dell’entroterra sardo, il libro narra la storia di una donna che di notte va nelle case dei moribondi per facilitarne la dipartita praticando, su richiesta dei famigliari, una sorta di eutanasia rituale. Insieme a lei vive la piccola Maria, sua filla de anima, figlia di anima, un’espressione che in lingua sarda indica l’affidamento volontario di uno o più bambinə da parte dei genitori biologici ad altre persone della comunità. La pratica, rimasta in uso fino alla fine degli anni Settanta, ha riguardato anche Michela Murgia che dedica, infatti, il libro alle sue “due madri” e da adulta creerà una propria famiglia “ibrida” o “queer”, come amava definirla, cioè lontana dal modello riconosciuto dalla legge italiana come “tradizionale”.
Nella sua vita privata sperimenta “una gradazione d’amore molto più ampia di quella che si può sperimentare dentro una coppia” acquisendo in circa venti anni quattro “figli d’anima”, il più piccolo dei quali in co-genitorialità con l’inseparabile Claudia e suo marito. “Ti chiedono loro, ti dicono fammi stare. Stiamo. La questione di essere famiglia ha a che fare con lo stare. Stai nella mia vita. Il modo? Lo si trova”, spiega in una delle sue ultime interviste.
“Sono partita dall’ovvio: in natura non sopravvive all’evoluzione ciò che è più stabile, ma chi meglio sa adattarsi alle condizioni nuove”, leggiamo nell’editoriale pubblicato sul numero di Vanity Fair da lei curato a inizio luglio. “Negli ultimi cento anni il mondo è così cambiato che sarebbe stato sciocco aspettarsi che non mutassero con esso anche i nostri stili di vita, di lavoro e di organizzazione sociale, compresi i modelli di relazione. La famiglia contadina era una tribù popolosa di tre generazioni, dove nonnə, padri e madri, cuginə e sorelle, nipoti e affini vivevano intersecatə dentro al legame di sangue. Nel Dopoguerra è partita la crescita industriale che ha portato al Nord milioni di persone a lavorare nelle fabbriche e vivere in case molto più piccole: è lì, non dalla notte dei tempi, che si sono create le condizioni della nascita della famiglia mononucleo, la coppia giovane con due bambinə, schema tutt’altro che tradizionale. Il mondo nel frattempo è cambiato ancora. Oggi, con una natalità ai minimi storici, salari da povertà, affitti impraticabili e ascensore sociale inchiodato, pensare che quel modo di gestire la vita sia ancora l’unico possibile o legittimo è miope e poco creativo, di certo insufficiente a farci felici”.
Animata dalla forza dirompente del pensiero critico, ammirata e rispettata per il suo carattere energico e l’acutezza delle sue riflessioni in difesa di posizioni alternative e spesso scomode, Murgia aveva la straordinaria capacità di adattare il proprio sguardo alla realtà in costante mutamento. Senza mai omologarsi alla retorica intellettuale dominante, ha parlato e scritto sui temi più disparati e mai a sproposito, osservando lo sviluppo dei processi socioculturali in corso dei quali sapeva intuire, prima e meglio di altrə, evoluzioni e conseguenze.
La sua produzione autoriale ha spaziato tra romanzi (Chirù, Einaudi, 2015, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, Mondadori, 2023), racconti (L’incontro, Einaudi, 2012), letteratura per ragazzə (Noi siamo tempesta, Salani, 2019), saggi (Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna, Einaudi, 2011, Futuro interiore, Einaudi, 2016, L’inferno è una buona memoria, Marsilio, 2018 e God Save The Queer. Catechismo femminista, Einaudi, 2022), scritti più brevi (Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, 2018, e Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, 2021), podcast (Morgana. La madre, realizzato con Chiara Tagliaferri) e spettacoli teatrali.
Ed è proprio sul palcoscenico che, nel 2017, conosce Lorenzo Terenzi, attore, regista e musicista, che poco prima di morire sposa con rito civile “In articulo mortis” per garantirsi diritti a vicenda in un Paese dove il matrimonio è ancora l’unico strumento per far riconoscere legalmente dallo Stato l’unione tra due individui. Alla festa nel giardino della loro casa romana, “dove ci sono più letti che stanze”, hanno partecipato decine di persone, tutte indossando gli abiti bianchi “genderless” e “inclusivi” disegnati dall’amica Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior. “Le nostre promesse non saranno quelle che siamo statə costrettə a fare l’altro giorno”, ha scritto l’autrice sul suo profilo Instagram poco dopo il rito. “[…] il nostro vissuto personale, come quello di tuttə, oggi è più politico che mai e se potessi lasciare un’eredità simbolica vorrei fosse questa: un altro modello di relazione, uno in più per chi nella vita ha dovuto combattere sentendosi sempre qualcosa in meno”.
Con le sue scelte indipendenti e anticonvenzionali Murgia ci ha insegnato la libertà, ci ha ricordato che l’autoironia è la forma più alta di intelligenza e ha dimostrato che è possibile e giusto morire quando si vuole e come si vuole, senza accanimenti terapeutici ma con estremo coraggio e profonda dignità.
Ha saputo godere pienamente fino all’ultimo dei suoi giorni raccontando attraverso i social la sua malattia, un carcinoma renale fulminante. Nel tempo che le rimaneva ha scritto, viaggiato, creato ricordi preziosi con le persone a lei care, affrontato questioni spinose e importanti con parole piene di luce e potenza, invitandoci a riconoscere la felicità anche nei più piccoli gesti quotidiani che normalmente sottovalutiamo.
La sua scomparsa ci fa sentire tuttə un po’ orfanə e più solə in un Paese infiammato da pericolose derive populiste che, ora più che mai, ha bisogno di voci capaci di risvegliare la sua coscienza civile e politica.
“Ho deciso che non userò mai il passato per parlarne. Michela è in ogni cosa, è sempre qui”, ha detto l’amica e avvocata Cathy La Torre in un incontro avvenuto a Firenze a un mese esatto dalla sua morte.
“Se potessi dire cos’è direi un bene collettivo, un bene comune.
È di tutte, tutti, tuttu”.