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“Knowing how to be solitary is central to the art of loving. When we can be alone, we can be with others without using them as an escape.” La frase della scrittrice e filosofa bell hooks (“Sapere come stare nella solitudine è centrale nell’arte dell’amare. Quando siamo capaci di stare soli/e possiamo essere insieme alle altre persone senza usarle come una via di fuga”) è la folgorante sintesi di una verità profonda dalla quale il nostro tempo tecnologico e liquido fugge caparbiamente. E la spiegazione è semplice: abbiamo costruito la chiassosa e volgare virtualità obbligatoria dello ‘sciame’ (così definisce l’umanità della rete lo studioso Byung Chul Han nel suo Nello sciame-visioni del digitale), chiamandolo ‘socialità’ e dichiarandola antidoto contro la solitudine, salvo poi, una volta spenti i dispositivi scelti, non sapere che fare di noi.
Il nostro tempo è quello dell’orrore del vuoto e dell’assenza, che considera la solitudine come nemico da combattere, omettendo che imparare a stare da sole e da soli è condizione umana indispensabile per costruire i nostri pensieri, le visioni e le scelte di vita che danno senso allo stare al mondo.
Se non si è capaci di solitudine non si è capaci di sviluppare autonomia, senso critico, responsabilità. Sarei forse più sola, senza la mia solitudine. scriveva Emily Dickinson, mentre Virginia Woolf nel 1929 dava alle stampe il famoso saggio Una stanza tutta per sé (A Room of One's Own) : il titolo proviene dalla concezione di Virginia Woolf che, "una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere". Tutta per sé, per essere sola nel momento della creazione e della riflessione.
Definiamo ‘dramma della solitudine’ le morti registrate dalla cronaca: la locuzione giusta sarebbe ‘dramma della socialità’, perché è la collettività priva di cura che uccide, assai più della solitudine. Abbiamo chiamato social i media ai quali deleghiamo la costruzione delle relazioni, da quelle intime a quelle politiche, addobbando magistralmente cattedrali dell’individualismo. Stiamo in perfetta solitudine insieme ad altre persone consultando a capo chino i cellulari, e la chiamiamo socialità.
Ma per varie ragioni le famiglie sono sempre più, almeno in Italia, composte da uomini e donne sole.
“Il calo delle famiglie con nuclei deriva dalle conseguenze di lungo periodo delle dinamiche socio-demografiche in atto in Italia: l’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della speranza di vita, genera infatti un maggior numero di persone sole; il prolungato calo della natalità incrementa le persone senza figli, mentre l’aumento dell’instabilità coniugale, in seguito al maggior numero di scioglimenti di legami di coppia, determina un numero crescente di individui e genitori soli”.
È quanto rileva l’Istat nel rapporto sulle nuove previsioni sul futuro demografico del Paese, aggiornate al 2021. “Alle persone sole, comunque associate al concetto di famiglia per quanto micro, si deve principalmente la crescita assoluta del numero totale di famiglie. Gli uomini che vivono soli – spiega l’Istat – avranno un incremento del 18,4%, arrivando a superare i quattro milioni nel 2041. Le donne sole sarebbero destinate ad aumentare ancora di più, da 4,9 a quasi 6 milioni, con una crescita del 22,4%.
Se è vero che imparare a costruire relazioni con l’altro/a comincia dal sapere chi siamo e cosa vogliamo, e che questo apprendistato necessita un percorso di solitaria autocoscienza, quando applichiamo questa verità legata alla crescita e alla maturazione?
La mia riflessione sulla solitudine come risorsa sia individuale che politica è iniziata presto, e si è connessa con il femminismo in modo palese nel 1981, quando a Verona presentai il mio primo libro Parole per giovani donne – 18 femministe parlano alle ragazze d’oggi. Avevo trent’anni e da poco ero madre del mio primo figlio. Una ragazza intervenne, e disse: ”La ringrazio per il libro e per il suo impegno come femminista. Il lavoro politico delle donne più grandi ha consentito a me e alle ragazze della mia generazione di avere le libertà e le opportunità che voi non avevate. Però c’è un problema: l’essere consapevole come donna mi rende diversa, oggi, nel mio tempo, dal resto della mia generazione. Con i ragazzi della mia età non so che dire e che fare, sono così poco interessanti, così lontani da me che per trovare un maschio con il quale avere un contatto devo cercare tra gli uomini più vecchi, il che però genera altre difficoltà. Con le ragazze della mia età mi sento un’aliena: loro guardano all’apparenza esterna, ai modelli della tv, al futuro con marito e figli. Quindi sono sola, mi sento sola. Come femminista sono una giovane donna sola. Il femminismo mi ha reso sola”.
Quel sola, ripetuto tante volte, ha continuato a riecheggiarmi nella mente, e mi ha accompagnato, da allora, traccia di retro pensiero costante, inquietante.
Che la verità renda libere, e che la coscienza di sé sia un guadagno straordinario e prezioso è un’affermazione piena di valore etico, uno sprone prodigioso. Ma è necessario spiegare alle generazioni successive che la libertà sprigionata dalla consapevolezza di sé ha dei costi e un prezzo. Quello, per esempio, di separarti dalla carezzevole, riposante e adesiva protezione del branco, del clan, dei ruoli e della prigione preconfezionati e assegnati al tuo sesso. Quello di porti al di fuori della protezione assegnata alle donne che non si ribellano, che si fanno portatrici obbedienti dei valori della tradizione. Si dimentica, o si tace consapevolmente, di dire che la libertà delle donne è scomoda, imprevista e mal vista, per motivi diversi sia dagli uomini che dalle donne stesse, combattuta sempre e nemica del successo e della coabitazione con il potere, a meno che non si tratti di libertà ceduta per cooptazione, per contratto a termine e in subordine alle regole da rispettare nei luoghi e nei ruoli che contano, senza metterli in discussione.
La giovane donna di Verona stava sperimentando come l’uscita dalle regole e dal ‘destino’ a lei assegnato come femmina della specie umana avesse un prezzo salato, al quale aveva dato il nome di solitudine. Il prezzo dell’autorevolezza e della coscienza di sé come soggetto e non come semplice femmina della specie umana era la solitudine.
Un prezzo alto, certo: ma è molto più crudele, devastante e pericoloso insegnare a chi è più giovane che la solitudine è una condizione da fuggire. Al contrario è solo stando bene da sole che sapremo, dopo aver preso le nostre misure, costruire relazioni sane perché non simbiotiche e dipendenti.